1995 - Premio internazionale Galileo Galilei a Sydney J. Freedberg

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Palazzo della Sapienza, Aula magna nuova, 1995.

Giudizio della Commissione per l'attribuzione del Premio Galileo Galilei dei Rotary Club Italiani Anno 1995, Sezione Storia dell'Arte Italiana

Verbale della Giuria designata dal Rettore dell'Università di Pisa Prof. Luciano Modica: Professori: Umberto Baldini - Roberto Ciardi - Angiola Maria Romanini - Carlo Arturo Quintavalle, Tristano Bolelli, Presidente

 

Nella vastissima produzione scientifica di Sydney J. Freedberg un dato si impone immediatamente con stringente evidenza: il rigoroso articolarsi degli interessi dello studioso intorno ad un nucleo, precisamente individuato ed organico, di problemi. Questa lunga fedeltà - quasi un cinquantennio - alle ricerche riguardanti l'arte italiana del Cinquecento, dagli inizi alla fine di un secolo il cui altissimo profilo e la cui centralità nella cultura figurativa europea appaiono indiscutibili, non nasce da rinunce o da mancanza di curiosità verso altri ambiti storici o geografici. Si configura invece come la presa di coscienza da parte dello studioso della necessità di ampliare l'indagine per chiarire precedenti e connessioni delle questioni di volta in volta affrontate e per individuare direttrici di sviluppo concomitanti o successive. L'inizio è dato dalla monografia sul Parmigianino (1950), esemplare per la precisione e l'incremento al catalogo dei dipinti e, in particolare, dei disegni, ma soprattutto innovativa perché individua con chiarezza nel pittore emiliano uno dei momenti di avvio della maniera secondo direzioni parallele, ma non collimanti, con le coeve esperienze fiorentine e romane. Da qui prende le mosse l'intento, eccezionale per impegno e risultati, di procedere alla sistemazione storica e critica della pittura del Cinquecento nell'Italia centrale. I due volumi della Painting of High Renaissance in Rome and Florence (1961) si impongono, innanzi tutto, per l'acribia filologica, sostenuta spesso da ricerche di prima mano condotte sul campo, ciò che consente di proporre stimolanti revisioni di attribuzioni di routine (anche nel caso di personalità di massimo rilievo, come Raffaello), di precisare percorsi e operosità di numerose altre figure di artisti, di inquadrare personalità fino allora sfuggenti o malnote. Ma la Painting of High Renaissance è soprattutto un'opera storiografica a tutto tondo la quale, negli anni centrali del dibattito sul manierismo, sottopone il termine ad una serrata disamina che consente di individuare, all'interno del concetto, scansioni e mutamenti diacronici correlati a sfumature e a differenti articolazioni ideologiche. Si rende così possibile avviare un processo di distinzione tra diversi periodi, momenti e tendenze attraverso il quale si chiarisce e si rende più euristica la stessa categoria originaria. Alle origini della maniera la figura di Andrea del Sarto si presenta come momento fondamentale. Era conseguente che essa dovesse imporsi all'attenzione di Freedberg. Ecco quindi, appena due anni dopo la pubblicazione della Painting of High Renaissance, la monografia in due volumi sul pittore fiorentino che costituisce ancora oggi un punto di riferimento ineludibile per gli studi sull'ambiente artistico toscano del primo quarto del Cinquecento. Il più recente Painting in Italy, 1550-1600 (1971), se da una parte ripropone la linea portante della Painting of High Renaissance, in forma più agile, ma con ulteriori precisazioni ed approfondimenti concettuali, dall'altra amplia l'orizzonte per considerare momenti rilevantissimi nelle vicende artistiche italiane del Cinquecento, come quelli che fanno capo alla cultura figurativa veneziana e dell'Italia settentrionale, solo marginalmente presi in esame nella trattazione precedente. Il quadro così completato costituisce il tracciato più attento e comprensivo della storia della pittura italiana del sec. XVI dopo le pagine di Adolfo Venturi. La concezione del Freedberg di una storia dell'arte che si risolve nell'identificazione del fenomeno di trasformazione dello stile trova la sua più compiuta e matura esplicitazione nel volume del 1983 Circa 1600: A Revolution of Style in Italian Painting, che si riaggancia con coerenza alle delimitazioni già proposte nelle nozioni di Late Maniera e Counter Maniera indicandone le progressioni e gli sviluppi in direzione dell'affermarsi della cultura barocca. Si può dunque affermare senza esitazione che il contributo di Sydney Freedberg alla storiografia e alla critica artistica di argomento italiano non solo ha apportato insostituibili incrementi di contenuto e determinanti precisazioni filologiche, ma costituisce anche un fondamentale arricchimento metodologico.

 

Pisa, ottobre 1995

 

 

Discorso del Vincitore del Premio Galilei

Il tema del mio discorso di questa sera è stato deciso dall'illustre Presidente della Fondazione, che mi ha chiesto un breve resoconto di quella che si potrebbe definire - forse con eccessiva generosità - la mia storia intellettuale. Lo faccio con una certa riluttanza, prima di tutto perché (malgrado il Loro magnanimo apprezzamento dei miei meriti personali) non sono ancora convinto che l'onore che mi viene concesso non superi il mio modesto talento. Devo confessare, inoltre, di soffrire di una certa inibizione di stampo anglosassone, che mi rende restio, persino se presumo di avere acquisito qualche benemerenza, a parlare di me stesso. Nel corso della mia lunga carriera storico-artistica ho affrontato (e talora chiarito) alcuni dei più grandiosi episodi della storia dell'arte italiana, ma devo ammettere di non essermi mai preoccupato tanto quanto ora che devo occuparmi delle mie - in confronto minuscole - imprese. Per partire dal dato fondamentale: come posso spiegare la mia dedizione ininterrotta e praticamente esclusiva all'arte italiana, e la mia predilezione - o meglio passione - per il Cinquecento in particolare? Quando ero studente a Harvard, negli anni Trenta, avevo affrontato - e non solo superficialmente - quasi l'intero percorso della storia dell'arte, provando grandissimo interesse per la maggior parte delle sue tappe fondamentali, ma soprattutto per la prima pittura fiamminga e per l'Ottocento francese. La pittura di quest'ultimo periodo mi aveva fortemente attratto non solo dal punto di vista estetico, ma anche per la stimolante ricchezza dei problemi che comportava sotto il profilo storico. Avrebbe potuto diventare la mia strada, se quanto avevo appreso sull'arte italiana, dal Trecento fino al Settecento, non mi avesse coinvolto ancora più a fondo. A ventun anni, quando mi diplomai a Harvard, l'arte italiana mi assorbiva già del tutto. Ma l'arte italiana aveva cominciato a soggiogarmi già da qualche tempo: prima di Harvard e del mio primo viaggio in Europa e in Italia. Negli anni del liceo, avevo frequentato la venerabile ed elitaria Boston Latin School (che opera ininterrottamente da più tempo di qualsiasi altro istituto del Nordamerica: è nata un anno prima di Harvard). Letteralmente dietro l'angolo avevo l'Isabella Stewart Gardner Museum, noto più familiarmente come Fenway Court, e, poco più lontano dalla scuola, il Boston Museum of Fine Arts, con le sue collezioni che abbracciano l'arte di quasi tutto il mondo. Quello che mi attirava di più era il Gardner Museum: un falso molto intelligente di un palazzo veneziano tardo-medievale, ricostruito ai bordi di un parco ricchissimo d'acqua, che ospita una meravigliosa, personalissima raccolta, tutt'altro che museale, di opere quasi esclusivamente italiane, soprattutto del Quattrocento, ma con splendidi esempi di epoche più tarde, tra i quali spicca - come il gioiello della corona - quell'autentico miracolo che è il Ratto di Europa di Tiziano. Lascio loro immaginare quale magia esercitasse un luogo del genere sulla mente di un ragazzo esteticamente sensibile, ma i miei successivi sessantacinque anni di vita ne sono una sufficiente conferma. Penso che a questo punto dovrei accennare anche al fatto che, se l'ammirevole ed eccentrica Mrs. Gardner può essere stata in parte responsabile della mia attrazione per l'arte italiana, c'è anche un'altra persona che ha la sua parte di colpa: Bernard Berenson, che - agendo per conto di Isabella Gardner - aveva di fatto radunato gran parte del contenuto di quella casa-museo. Berenson sarebbe diventato in seguito per me un amico prezioso e un autentico modello da seguire nelle cose che contano: il metodo, l'atteggiamento verso l'opera d'arte e, più in generale, l'alto livello di umanità che dimostrava, come dovrebbe essere capace di fare ogni storico dell'arte. L'educazione ricevuta a Harvard, negli anni del college, ha senza dubbio esercitato su di me un profondo influsso formativo; nella più grande di tutte le università americane ho potuto beneficiare delle migliori risorse intellettuali e dei più avanzati strumenti di studio. L'insegnamento della storia dell'arte vi veniva impartito all'interno del museo universitario, dove mi veniva ricordato di continuo che le fotografie, le diapositive e i libri non avevano affatto soppiantato (come in altre università) le opere d'arte originali, le sole ad avere insita in loro la verità dell'esperienza artistica. Una lezione che si è impressa profondamente e permanentemente nella mia mente e nel mio metodo di lavoro. Due dei professori ebbero per me un'importanza particolare. Erano ambedue appena arrivati a Harvard, ed entrambi - bisogna ricordare che sto parlando della metà degli anni Trenta - erano, anche se per motivi diversi, rifugiati dalla Germania di Hitler. Jacob Rosenberg, che era stato conservatore nel famoso gabinetto delle stampe del Museo di Berlino, insegnava, con straordinaria capacità di vedere e di sentire, non solo la storia, ma anche la cultura delle arti grafiche, in un inglese imparato da poco, ma ammirevolmente preciso. Wilhelm Koehler aveva avversato con tutta l'anima la politica nazista e si era quindi deciso a emigrare. Era forse l'essere umano più nobile che io abbia mai incontrato. Aveva una disciplina mentale tipicamente prussiana, ma uno spirito elevatissimo: nell'opera d'arte sapeva additare il più profondo significato umano, e con l'esaltante risultato di farci sentire nel giusto. Nel 1936-1937, una borsa di studio di Harvard rese possibile il mio primo lungo viaggio in Europa, durato più di un anno. Passai un certo periodo in Inghilterra e in Francia, visitai l'Olanda e la Germania, ma fu all'Italia che dedicai più di metà del tempo. Quei mesi, numerosi ma non certo sufficienti, costituirono un incredibile ampliamento delle mie esperienze. Mi immersi nella meravigliosa linfa vitale delle grandi città storiche, divorando letteralmente il contenuto delle loro chiese e musei. L'Italia rappresentò inevitabilmente il compendio di tutto questo, e le circostanze del mio arrivo furono un segno premonitore del tipo di fascino che il paese avrebbe da allora sempre esercitato su di me. Nel gennaio del 1937 arrivai in treno da Vienna, molto tardi, alla stazione di Santa Lucia. Uscii all'aperto in una notte vellutata di luna piena: la luce ondeggiava e scintillava sull'acqua del canale; sull'altra sponda gli edifici apparivano privi di sostanza, come se la notte ne avesse assorbito le pareti. Ma il gelo aveva formato catene di diamanti su tutti i particolari delle architetture, disegnando una magica filigrana, sospesa nell'oscurità, di archi, cornicioni e colonnine. Le meraviglie che avevo appena visto in Europa erano di un livello inferiore rispetto a quella scenografia veneziana, a quel connubio strabiliante di natura e di lavoro umano. Non avevo mai visto, né immaginato che potesse esistere, tanta bellezza; in quel momento l'Italia mi conquistò per sempre. Sono passati quasi sessant'anni dal mio "colpo di luna" veneziano e sono ritornato in Italia tutte le volte che se ne è presentata l'occasione. Ma, in tutti i lunghi anni che ho passato in America a scrivere e a insegnare, ho vissuto e lavorato con la mente e lo spirito nell'Italia storica. E' proprio nella natura dell'insegnamento umanistico impartito nelle grandi università americane che l'attività didattica occupi il primo posto tra i doveri di un professore. La ricerca, lo scrivere e il pubblicare sono necessari per entrare in ruolo e garantirsi la continuità della carriera, ma di solito queste attività vengono svolte nel tempo lasciato libero dall'insegnamento. Un sistema che forse non rispetta quelli che sono i miei obiettivi prioritari, ma che ho comunque sempre considerato giusto. Sono convinto, inoltre, che l'attività didattica abbia recato grandissimo giovamento ai miei studi e alle mie ricerche, forse soprattutto perché mi obbligava al contatto con gli altri, rendendomi più umano e permettendomi quindi di trasmettere una migliore e più agile comprensione dell'arte che studiavo. Né va dimenticato che le lezioni in aula, e più ancora i seminari, sono stati i laboratori a me più congeniali ove condurre esperimenti con le mie idee, proprio per la presenza degli studenti, che con le loro reazioni più o meno favorevoli mi aiutavano a sviluppare, precisare e talvolta correggere il mio pensiero. Insegnare è stato per me un impegno grave e talora spossante, ma sempre ricco di stimoli; un'esperienza durata tanto quanto la mia carriera, ma nel complesso gratificante. Il mio primo scritto ad avere le dimensioni di un libro fu la tesi di dottorato che presentai a Harvard nel 1940; ma fu solo dieci anni dopo, nel 1950, che riuscii a pubblicarla, dopo le opportune limature e revisioni. Nel frattempo avevo passato un anno angoscioso, ma altamente educativo, alle dipendenza di un mercante d'arte di New York, quattro anni di servizio militare in tempo di guerra, un anno intero a rivedere la tesi e altri quattro ad aspettare che passassero i tempi editoriali strepitosamente lenti della Harvard University Press, che non dava alcun segno di avere fretta di stampare il lavoro di un giovane autore sconosciuto. Il soggetto del libro era il grande pittore e disegnatore manierista Francesco Parmigianino: un tema che si ricollegava, approfondendolo, all'interesse, nato negli anni del college, per il problema complesso e intellettualmente stimolante - molto in voga tra gli storici dell'arte anglosassoni - del Manierismo italiano. Il libro ebbe un notevole successo tra gli studiosi: sembrò alla maggior parte dei lettori innovativo nella presentazione dell'artista quale fenomeno esemplare del Manierismo cinquecentesco, riuscì a dimostrare che gli elementi formali di un'opera d'arte - la struttura, il disegno e il colore, come pure gli effetti estetici ed emozionali che quegli elementi generavano - si fondevano con il soggetto illustrato in una sintesi di significati: descrivere questa sintesi equivaleva in realtà a definire lo stile artistico. Ma il libro su Parmigianino trovò anche qualche detrattore, che invariabilmente riteneva il metodo troppo restrittivo (o formalistico, come pensavano alcuni), e qualcuno giudicava il mio stile letterario più complicato e difficile del necessario. Fu un appunto che presi molto a cuore, ma senza risultati apprezzabili, poiché al momento di affrontare la stesura del mio saggio successivo - Painting of the High Renaissance in Rome and Florence - capii finalmente che il mio modo di esporre non era una semplice aberrazione stilistica, ma la proiezione autentica del mio personale modo di vedere e di pensare. Nel contesto delle opere d'arte che sono il tema di quel libro - quanto di più alto l'arte, non solo italiana, abbia mai prodotto - era opportuno che cercassi di vederle con la più penetrante intensità e la massima precisione possibile, analizzandole, con un'intensità di pensiero pari a quella visiva, in quanto portatrici di un significato umano ed estetico; sentii inoltre di dover esaminare, in tutta la loro complessità, anche i rapporti che legano tra loro queste opere. Con simili ambizioni, lo stile espositivo che mi sembrava necessario adottare non poteva che essere difficile: serrato, complicato e assai denso di significati. Alcuni critici, comunque, e in particolare certi colleghi inglesi, videro in quel libro un attentato alla purezza della loro lingua; altri invece ne paragonarono lo stile a quello di un grandissimo scrittore anglo - americano, ma svuotarono il complimento dicendo che sembrava di leggere "Henry James come se fosse tradotto dal tedesco". Ebbi però la mia vendetta quando Kenneth Clark, allora il decano degli studiosi anglosassoni di storia dell'arte, ripropose il confronto con lo stile tardo, più complesso e sottile, di Henry James, ma senza ulteriori precisazioni, asserendo che il contenuto che quello stile veicolava era il migliore esempio di critica d'arte dagli inizi del secolo, quando Heinrich Wöefflin scriveva sull'argomento. Cominciai il libro sulla High Renaissance quando il mio precedente Parmigianino era ancora in attesa di pubblicazione: per portarlo a termine ci vollero undici anni. Si potrebbe descriverlo, rendendogli ugualmente giustizia, come un'impresa temeraria o eroica, in quanto pretendeva di affrontare - in generale e in particolare - i due decenni più eccelsi della storia della pittura italiana. Il mio proposito - eccessivamente ambizioso - era quello di arrivare il più vicino possibile alla verità storico-artistica di quel periodo a Firenze e a Roma, cominciando con l'esaminare con la massima attenzione il contenuto estetico e spirituale di ogni opera di un certo interesse - non importa se di un grande maestro o di un artista minore - che ero in grado di individuare, per poi passare a intessere tutte queste osservazioni in un'immagine complessiva, quasi un arazzo, che fosse in grado di comunicare il senso e la sostanza dell'arte della pittura di quel tempo in quei due luoghi di straordinaria capacità creativa. Fu il progetto più arduo che io abbia mai affrontato. Sono ormai passati trentaquattro anni dalla sua data di pubblicazione, il 1961, ma, malgrado le tante novità emerse da allora (ho riveduto il libro già due volte), sono ancora convinto che si tratti della mia opera più valida e duratura. Solo due anni dopo, nel 1963, uscì un altro libro sostanzioso: una monografia in due volumi sul fiorentino Andrea del Sarto. Il soggetto si rivelò uno di quelli che non mi sono del tutto congeniali; lo avevo affrontato per l'insistenza di Berenson, che sperava potessi colmare un vuoto nella letteratura, dove nulla di notevole era stato pubblicato dal 1903, quando lo stesso Berenson aveva scritto nei suoi Drawings of the Florentine Painters un bel capitolo su questo difficile artista. Riuscii a produrre un libro utile e informato, ma che non mi ha mai soddisfatto del tutto: la scarsa simpatia per quel pittore ha finito per ostacolare la mia indagine critica su di lui. Ho imparato così ciò che avrei dovuto già sapere: quando si scrive su un certo argomento è molto meglio se lo si ama. Il libro successivo - un volume sulla pittura di tutta l'Italia del Cinquecento - si rivelò, quanto a complessità e dimensioni, ancora più impegnativo di Painting of the High Renaissance. Mi ero ripromesso, come già nel saggio appena ricordato, di raccogliere un grande numero di idee e di percezioni, di singole opere d'arte, artisti isolati e scuole locali, da intrecciare insieme in un'unica trama che fosse al tempo stesso onnicomprensiva e sintetica, ma dove ogni filo riuscisse a conservare la propria identità. Forse perché, su un tessuto storico di tali dimensioni, dovevo - per così dire - dipingere con un pennello più largo, mi sembra che il mio modo di scrivere si sia un poco liberato dal precedente rigore, orientandosi a volte verso la "sprezzatura"; vi sono poi, in quel libro, parti che quasi soddisfano un'altra mia ambizione, quella di rendere la scrittura critica partecipe del carattere della poesia, poiché sono convinto ormai da tempo che è a questo che la critica delle arti visive dovrebbe mirare. Per scriverlo mi ci vollero otto anni. Avrei potuto finirlo più di un anno prima, ma la sua stesura venne interrotta dalla grande alluvione di Firenze del 1966 e dalla concomitante acqua alta di Venezia. Lasciai da parte il libro per assumere la vicepresidenza del CRIA, il comitato americano che venne immediatamente creato per collaborare al recupero e al restauro delle opere d'arte, delle biblioteche e degli edifici storici che avevano subito danni in ambedue le città. Quello avrebbe dovuto essere un anno sabbatico, da dedicare liberamente alla ricerca e al libro, ma capii subito quanto fosse più importante cercare di salvare l'arte sulla quale stavo scrivendo. Prima della fine dell'anno apparve chiaro che la situazione veneziana richiedeva un'attenzione ben al di là dell'emergenza immediata, e fui uno dei fondatori prima del Venice Committee e poi del Save Venice, due organismi che, a quasi trent'anni di distanza dal disastro del 1966, svolgono ancora oggi un ruolo primario nella conservazione dei tesori d'arte della città. I miei interessi continuavano sempre a gravitare attorno al Cinquecento ma, dopo aver portato a termine il saggio complessivo sull'intero secolo, mi orientai sempre di più, nella scelta del tema dei miei corsi, verso il Seicento, e in particolare verso gli inizi del Barocco a Bologna e a Roma. Di qui ebbe origine un altro libro, questa volta non grande e decisamente meno ambizioso dei miei scritti precedenti. Pubblicato nel 1983, conteneva tre saggi sui grandi inventori dello stile seicentesco in pittura: Annibale Carracci, Ludovico Carracci e Caravaggio. Vale forse la pena di ricordare che le principali innovazioni introdotte da questi artisti rimangono entro i confini cronologici del XVI secolo: si potrebbe quindi vedere in questo scritto quasi il completamento della mia lunga esplorazione del Cinquecento. Nel 1988 compii i sessantotto anni e giunse il momento fissato per lasciare la facoltà di Harvard. Ebbi appena il tempo di tirare il fiato prima di ritrovarmi a Washington, come Chief Curator della nostra National Gallery of Art. Sapevo bene che l'età avrebbe sempre più limitato le mie capacità, e accettai l'incarico per soli cinque anni. Anche se in modo informale, il servizio prestato all'Harvard Art Museum mi aveva sufficientemente preparato ad assolvere i doveri di un curatore. A Washington, pur essendo le mie responsabilità teoricamente illimitate, trovai subito il modo di concentrarmi sulle esposizioni e le acquisizioni di arte italiana. Una delle mostre che ho progettato (anche se fu presentata solo nel 1992, quando ero già in pensione) era solo parzialmente italiana nel contenuto, ma la sua stessa ragione d'essere era un italiano, Cristoforo Colombo. L'idea era quella di dimostrare che l'arte è lo specchio della civiltà che la produce: un concetto che ritengo indiscutibile. La mostra ricreava, in una specie di microcosmo artistico, lo spirito, il pensiero e l'aspetto delle diverse culture del mondo come erano al momento della scoperta di Colombo. Vi è un'ironia involontaria, ma anche una gradita simmetria, nel fatto che le mie più recenti pubblicazioni consistano in una breve biografia di Bernard Berenson (il responsabile - come ricorderanno -, tramite il Museo Gardner, del mio primo incontro con l'arte italiana) e in un lungo saggio su Parmigianino. Tutto ciò mi riporta, a quasi mezzo secolo di distanza, al punto dal quale ero partito. È inevitabile che ora io scriva sempre di meno e anche le conferenze si facciano più rare. So bene che, con il passare degli anni, finirò per esaurirmi, ma so altrettanto bene che è impossibile che io riesca a esaurire l'argomento dei miei studi.

 

Da: http://www.premiogalilei.it/html/vincitori/vincitori.php?id=35 (consultata in rete il 24/07/17)

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