1993 - Inaugurazione a.a. 1993-1994

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Palazzo dei congressi, 6 novembre 1993.

Inaugurazione a.a. 1993-1994
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Oscar Luigi Scalfaro
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INAUGURAZIONE DELL’ANNO ACCADEMICO 1993-94, 650° dalla fondazione

RELAZIONE DEL RETTORE PROF. GIAN FRANCO ELIA

 

650 anni or sono - il 3 settembre 1343 - con la Bolla di Clemente VI In suprema: dignitatis, l’ateneo pisano iniziava ufficialmente la sua esistenza.

La relazione inaugurale di questo anno accademico è pertanto centrata sul ricordo di tale ricorrenza e sul tentativo di lettura di vicende del passato che possono fornire spunti di riflessione per il presente e forse per il futuro della nostra università.

L’ipotesi che intendiamo formulare è apparentemente contraddittoria: questa università e questa città sono coinvolte nel corso dei secoli negli stessi processi di sviluppo e di declino; ciò nonostante costruiscono in maniera autonoma il loro destino e raramente riescono a stabilire legami organici di collaborazione e integrazione. E’ comunque da segnalare che lo Studio pisano esercita costantemente un’azione positiva sul territorio, ora accelerandone il progresso, ora rallentando nelle crisi; e che questa azione si ripropone anche nell’attuale società post-industriale, in cui vanno rapidamente mutando i modi di vita e di pensiero e l’organizzazione dello spazio (con la diffusione delle aree metropolitane, dei parchi scientifici, delle tecnopoli). Per questi motivi, appaiono patetici i tentativi di coloro che sognano una università circondata da mura (sia pure invisibili), che guardano ad essa come ad un corpo separato dal territorio, che ignorano i suoi obiettivi di sviluppo economico e sociale e quindi le sue possibilità di ampliare i compiti formativi e creativi, di misurarsi con il mondo del lavoro e della produzione, di stabilire nuovi e più diretti rapporti con gli enti territoriali.

In occasione del 6500 anniversario non possono essere trascurati temi tanto essenziali, che in fondo sono l’esito di un processo culturale lentamente maturato nel corso dei secoli. La ricorrenza assume anzi maggiore importanza se si tiene conto che mezzo secolo fa il 6000 dalla fondazione cadde in uno degli anni più tormentati della nostra storia e venne quasi ignorata. Anche oggi la difficile situazione economica impone una celebrazione particolarmente austera, forse diversa da quella che avremmo immaginato, ma l’alta presenza del Presidente della Repubblica – al quale, unendomi alla Conferenza dei Rettori, desidero esprimere la nostra solidarietà in questo difficile momento che attraversa il Paese - conferisce alla cerimonia un particolare significato e testimonia il riconoscimento e l’apprezzamento del Paese per questa università, per i suoi maestri e per i suoi scolari.

A una linea di prevalente impegno culturale è quindi improntata la pubblicazione di un primo volume della storia dell’università, che va dalla sua fondazione all’estinzione della dinastia lorenese. Un secondo volume prenderà in esame l’epoca del granducato (1737-1859) e un terzo esaminerà il periodo successivo, fino al 1945. Colgo questa occasione per ringraziare gli autori e la Commissione (presieduta da Ranieri Favilli e composta dai colleghi Ottavio Banti, Rodolfo Del Gratta, Tommaso Fanfani, Elena Fasano Guarini, Gianfranco Fioravanti, Carlo Maccagni, Giuliano Marini, Danilo Marrara, Mario Mirri, Marco Tangheroni e dal compianto Francesco Squartini), che ha seguito con tanta intelligenza e passione le varie fasi di preparazione e di pubblicazione dell’opera. Ringrazio anche la Cassa di Risparmio di Pisa per aver generosamente contribuito alla realizzazione di questo primo volume.

Il ripensamento della nostra storia e l’approfondimento delle nostre prospettive future sono momenti diversi, ma inseparabili, del divenire di questa università di grandi tradizioni e per questo di grandi potenzialità. In questi 650 anni della sua storia, l’ateneo ha sempre mantenuto una luminosa tradizione scientifica ed una catena ininterrotta di grandi maestri, che hanno fatto di esso un polo di attrazione per studiosi e studenti di ogni Paese. Lungi dal guardare al 650° anniversario come ad una banale e retorica commemorazione, crediamo pertanto che da questa occasione possa partire una riflessione critica sulle vicende dell’università, sui suoi problemi, sui suoi rapporti con il territorio, sulle sue prospettive.

D’altronde il 1343 è solo la data di riconoscimento istituzionale dello Studio. Una cultura ed un insegnamento di livello superiore (che oggi chiameremmo universitario) sono presenti a Pisa anche nei secoli precedenti, e si basano su una tradizione culturale che affonda le sue radici nei rapporti con il Mediterraneo e con i territori arabi: i nomi di Burgundio, giurista, teologo, autorevole esponente della colonia pisana a Costantinopoli, e quello del matematico Leonardo Fibonacci, formatosi sotto la guida di scienziati ebrei ed arabi, sono là a confermarlo.

La Bolla del 1343 costituisce comunque la pietra miliare della nostra università, poiché con essa lo “Studio Generale” viene autorevolmente investito di compiti di educazione superiore, consente ai suoi dottori la licentia ubique docendi, riconosce ai suoi professori e studenti privilegi particolari. Lo Studio è una realtà territoriale, solo perché i suoi insegnamenti si svolgono a Pisa (in cui si riconosce esistano condizioni adatte ad un insediamento universitario, quali la favorevole posizione geografica e la disponibilità di risorse adeguate), ma appare chiaro fin da ora che il suo spazio non è fisico, ma culturale. E’ anche vero che la concezione di Pisa come città universitaria è sovente alla base di disegni politici diretti a concentrare le attività dell’ateneo nella città (secondo una linea tutt’altro che abbandonata), per fare di essa un’area strategica di diffusione della scienza e della cultura e quindi un potenziale centro di prestigio e di potere.

Con la fondazione dello Studio, Pisa viene a porsi come punto privilegiato del territorio, come polo di attrazione per studenti e docenti provenienti da regioni vicine e lontane ed è in questo senso favorita dalla ripresa dei commerci marittimi e terrestri, delle attività finanziarie e bancarie. Le prime facoltà ad essere aperte sono quella di Teologia (forse per la presenza di un importante studio domenicano), e quelle - rispondenti più direttamente ai bisogni della convivenza associata - di Diritto canonico e civile e di Medicina.

La Bolla prevede anche la possibilità di estendere l’apertura dello Studio ad altre facoltà e ne sancisce pure il carattere internazionale, concedendo agli studenti pisani gli stessi privilegi previsti per quelli di Bologna e di Parigi. Dalla sua fondazione, l’ateneo è tutt’altro che un fatto locale, o localistico, e le regole che lo disciplinano sono legate non tanto ad appartenenza territoriale, ma allo status universitario; la sua attività e la sua produzione si ispirano a principi universalistici.

Lo Studio fa dunque compiere a Pisa una notevole salto di qualità. L’universitas costituisce, qui come ovunque, un fattore di attivazione del territorio su cui riesce ad influire. Ad ogni modo, come abbiamo accennato, lo Studio resta legato, nel bene e nel male, alle vicende economiche e politiche di una città, non sempre sensibile alle esigenze universitarie, perché costretta a fronteggiare le lotte violente tra le fazioni, la crescita spaventosa del debito pubblico, il tormentato rapporto con Firenze. Non sorprende perciò che lo Studio veda successivamente ridurre la sua capacità di attrazione, diminuire il numero dei docenti, ridimensionare l’entità degli stanziamenti. Eppure riesce a sopravvivere a queste avversità, confermando la sua vitalità e capacità di resistenza sul territorio, del resto animate da maestri di grande fama, quali i giuristi Baldo e Bartolo da Sassoferrato, il medico Ugolino da Montecatini e il “grammatico” Francesco da Buti.

La crisi della città diviene molto grave dopo la conquista fiorentina del 1406: la popolazione è al di sotto dei 10 mila abitanti, le condizioni socio-economiche si fanno drammatiche, il ceto dirigente è costretto ad esiliare. Ancora una volta l’università subisce le conseguenze della generale decadenza, ma il suo prestigio resta immutato e nessuno osa chiederne la soppressione.

Così, nella seconda metà del Quattrocento, l’ateneo torna ad assumere una posizione di rilievo. I Medici si rendono perfettamente conto della sua funzione politica e dell’importanza del suo collegamento con il territorio, non solo cittadino ma regionale. Lo Studio è allora assunto come uno dei possibili perni della ripresa politica ed economica. Lorenzo de’ Medici compie su questa strada due scelte importantissime: da un lato, decide di riaprire lo Studio a Pisa, città ritenuta più adatta della stessa Firenze all’istituzione universitaria; dall’altro avvia la costruzione della sede unica della Sapienza nella centrale Piazza del grano, dando inizio a quel processo di concentrazione universitaria a nord dell’Arno che proseguirà fino ai nostri giorni. La decisione della Repubblica fiorentina di erigere l’università in civitate Pisa è inoltre confortata e sostenuta dall’assenso papale, espresso nel 1476 in un Breve di Sisto IV.

Dopo la ribellione di Pisa a Firenze nel 1494 e dopo la riconquista della città nel 1509, lo Studio è ancora coinvolto in una crisi generale e trasferito prima a Prato e poi a Pistoia, per essere infine riaperto a Pisa nel 1515.

Con Cosimo I de’ Medici l’università è al centro di un raffinato gioco politico. Consapevole del potenziale aggregativo dello Studio, egli punta su Pisa come sede primaria dell’istruzione universitaria e nel novembre 1543 promuove, con nuovi statuti, un radicale rinnovamento didattico e amministrativo dell’ateneo, predisponendo adeguati impegni finanziari, reclutando docenti in altre sedi universitarie, riaprendo regolarmente i corsi. Questa sorta di seconda fondazione dell’università sottende prospettive di potere ben precise, articolate su una scuola per l’educazione e la formazione superiore dei sudditi e sul rilancio di Pisa come centro culturale, economico, sociale di importanza non solo toscana, ma internazionale.

Lo Studio si articola ora in “Nazioni”, composte sulla base del luogo di provenienza dei suoi membri (transalpini e cisalpini). La guida di ciascuna Nazione è affidata ad un consigliere; quella dell’intera università al Rettore: entrambi sono studenti eletti annualmente dagli studenti. Il Rettore - che per onorare il principio di internazionalità (o, se si vuole, della extra-territorialità) non deve essere né fiorentino, né pisano, né marito di una pisana - è il capo dell’università, sovrintende alle attività didattiche ed è titolare del tribunale accademico, dotato di giurisdizione civile e criminale sugli studenti, sui professori e su altre categorie legate allo Studio. L’autonomia studentesca prevista dagli statuti è progressivamente limitata da due importanti uffici, quello dell’Auditore, stretto collaboratore del Sovrano nelle decisioni attinenti allo Studio, e quello del Provveditore, funzionario con attribuzioni di rilievo nella gestione dei negozi accademici.

Il nuovo assetto normativo dell’università è confortato dalla ripresa dell’economia cittadina nella seconda metà del Cinquecento. E così l’ateneo consolida le sue strutture e accresce ulteriormente il suo prestigio. Tra i suoi maestri, accanto al grande Galileo si pongono il Falloppio, il Vesalio, il Cesalpino e più tardi il Malpighi. Il tessuto urbano risponde alle esigenze di sperimentazione e di ricerca proprie degli studi universitari con l’apertura, per iniziativa di Luca Ghini e per ordine di Cosimo I dei Medici, del Giardino dei Semplici, ove può avvenire l’osservazione delle “piante vive”. La città aumenta la sua popolazione e accentua la sua vocazione universitaria con il sorgere di collegi destinati a studenti provenienti da varie parti della Toscana e dell’Italia (il Collegio della Sapienza, il Ricci, il Ferdinando, il Puteano). Ma Pisa non è in grado, neanche allora, di soddisfare la domanda di alloggi proveniente dagli studenti: ciò provoca inevitabili speculazioni sugli affitti, contro cui le autorità sono costrette ad emanare disposizioni molto severe.

Tuttavia dai primi decenni del ‘600 (quando l’ateneo conta circa 600 studenti) la politica medicea denuncia in modo evidente la tendenza a trasformare l’università autonoma in scuola di stato. Da qui l’eliminazione di prerogative riservate a studenti e docenti, il controllo rigoroso di certe procedure universitarie (come quelle concernenti la laurea), la sostituzione dello Studente-Rettore, simbolo indiscusso del potere di autodeterminazione studentesca, con un Vicerettore Sostituto, investito solo di poteri suppletivi.

Questi provvedimenti si inquadrano in un contesto che, a causa dei limiti finanziari dello Stato, del contenuto sviluppo del commercio, della modestia delle attività agrarie (a cui è particolarmente legato il ceto dirigente pisano), delle contrazioni demografiche, finisce con produrre conseguenze negative anche per l’organizzazione universitaria. A ciò si aggiunga che nella seconda metà del secolo scompare l’attività dell’arsenale e si riduce quasi del tutto l’attività urbanistica e artistica legata all’Ordine di Santo Stefano. Questi elementi di crisi rendono problematico l’accesso all’università per le classi più deboli, che si vedono precluse le borse di studio concesse dalle comunità, e accrescono le difficoltà di collocazione dei laureati toscani nella burocrazia medicea.

Dopo i Medici, la politica granducale lorenese si rivela particolarmente attenta al “numero e alla qualità delle cattedre”, allo “splendore dello Studio di Pisa”, ai “requisiti de’ professori “e “al loro onorario”. Nel 1738 il Provveditore Gaspare Cerati teorizza le tre fondamentali direttive su cui l’ateneo deve avviarsi: formazione professionale dei sudditi, promozione ed esaltazione delle più nobili discipline, “onesto mantenimento” - egli scrive - di “ingegni sublimi in premio delle loro illustri fatiche e per eccitamento a fare sempre nuovi progressi e scoperte...”.

Queste prospettive sono confermate da provvedimenti - come la realizzazione, nella seconda metà del Settecento, della specola astronomica, l’arricchimento dei musei e della biblioteca, l’istituzione di nuove cattedre - attraverso i quali si intende accrescere non solo il potere ma l’autorità del governo, conseguire quindi weberianamente la possibilità di far valere la volontà dei governanti all’interno e all’esterno dello Stato ed ottenere l’obbedienza dei sudditi ai loro “comandi” e alle loro direttive. In questo senso non va sottovalutato l’apporto dell’università, detentrice di un potere certamente vicario rispetto a quello politico-amministrativo, ma non per questo meno efficace, perché in grado di concorrere - soprattutto nei periodi delle riforme - allo svolgimento dei complessi processi cognitivi che precedono il momento decisionale.

Tuttavia, verso la fine del secolo, l’università, o almeno una parte di essa, guarda con sospetto alla politica dei Lorena, se è vero che il corpo docente è diviso tra una maggioranza fedele al regime granducale ed una minoranza seguace delle idee rivoluzionarie provenienti dalla Francia. Analoghi orientamenti sembrano esistere tra gli abitanti (piuttosto fedeli al Granduca) e tra gli studenti (in prevalenza schierati a favore della Francia).

Ma quando le truppe francesi, nel 1799, entrano in Pisa e alloggiano nella Sapienza, il corpo dei docenti conferma una volta di più il suo fermo attaccamento all’autonomia universitaria e ricorda, in un esposto al comandante, che l’università di Pisa “ha sempre formato un corpo interamente distaccato dal governo e dalla Municipalità di quella città” (parole significative, che fanno ulteriormente riflettere sulla separazione tra università e città).

Le tumultuose vicende dei mesi seguenti (ritirata francese, restaurazione granducale, ritorno dei Francesi) hanno una ricaduta negativa sul corpo docente (da cui saranno epurati i professori collaborazionisti) e sull’università (di cui è ordinata la chiusura il 13 ottobre 1799). Un anno dopo, il 1° dicembre del 1800, il Governo Provvisorio Toscano dispone la riapertura dell’ateneo che esce però fortemente provato dalle precedenti esperienze.

Nel 1807, quando la Toscana entra a far parte dell’Impero, il governo francese pare considerare con la massima attenzione l’università di Pisa, per la sua favorevole posizione geografica, per le sue tradizioni storiche, per il suo patrimonio scientifico e culturale e soprattutto per la funzione strategica che essa può svolgere sul territorio. E adotta quindi provvedimenti per favorire la ripresa dell’ateneo, anche se limita prudentemente l’autonomia delle sue strutture, sottoponendole a controlli rigidi e abolendo il foro particolare.

Trasformata in Accademia Imperiale alle dirette dipendenze dell’università di Parigi, l’università pisana è posta nel 1810 alla testa del sistema scolastico toscano ed organizzata in cinque facoltà: teologia, giurisprudenza, medicina, scienze, lettere. In questo periodo viene fondata la Scuola Normale Superiore.

I cambiamenti politici successivi non spostano i termini della questione universitaria. Anche con la Restaurazione lorenese, l’ateneo costituisce una pedina insostituibile nello scacchiere politico toscano. Così vengono potenziate le sue attrezzature, consolidato il suo patrimonio edilizio, fondati l’istituto di agraria, e la cattedra di veterinaria. Inoltre a Pisa è celebrato nel 1839 il primo Congresso degli scienziati italiani.

In una situazione nella quale il governo lorenese effettua stanziamenti a favore dell’edilizia universitaria, concede sovvenzioni alle collezioni scientifiche, riconoscimenti ai docenti più qualificati, sussidi ai giovani studiosi, viene finalmente varata, nel 1840-41, la grande riforma universitaria. Gli studenti iscritti sono 602 (di cui 108 stranieri) e l’ateneo si articola in sei facoltà: teologia (destinata a scomparire nel 1860), giurisprudenza, lettere e filosofia, scienze matematiche, scienze naturali, medicina; conta ben 48 cattedre (molte delle quali rispondenti alle esigenze tecnico-professionali emergenti nella società del tempo); dispone di attrezzature relativamente importanti.

Ma ben presto allievi e maestri dell’università si rendono conto che è giunto il momento dell’impegno politico in difesa della libertà, dell’autonomia, degli ideali unitari del Risorgimento. E mostrano di sapersi organizzare non soltanto come gruppo politico, ma come gruppo militare, partecipando con sei compagnie di 389 uomini (su 621 studenti e qualche decina di docenti) alla prima guerra d’indipendenza nel 1848, ed intervenendo a fianco dell’esercito piemontese nell’eroico episodio di Curtatone e Montanara.

La reazione contro una università schierata dalla parte del mutamento istituzionale non si fa attendere e, due anni dopo la restaurazione granducale del 1849, diviene operante una sorta di controriforma universitaria, che sopprime numerosi insegnamenti e trasferisce a Siena, per ragioni economiche, le facoltà di teologia e giurisprudenza. Pisa subisce una forte diminuzione di popolazione studentesca. La cittadinanza non lascia cadere occasione per protestare (anche con scritte sui muri) e chiedere con forza il rilancio dell’università. Finalmente nel 1859, dopo la fuga del granduca, la giunta provvisoria reintegra i corsi chiusi e le facoltà trasferite, istituendo anche una sezione di agraria e veterinaria.

Al momento dell’unificazione, le università del Regno d’Italia sono troppe e mal distribuite. Un regolamento universitario del 1862 attribuisce una posizione di privilegio a sei università “primarie” (tra le quali è Pisa) con stipendi superiori per i professori e con attribuzioni particolari in materia didattica. Tuttavia, nel corso di alcuni decenni, la posizione del nostro ateneo appare indebolita, forse per la concorrenza esercitata nella regione dall’Istituto fiorentino di studi superiori, più probabilmente per la mancanza di quella politica di sostegno da parte degli enti locali, che altrove sta dando buoni frutti e contribuisce in maniera determinante allo sviluppo di molte università (soprattutto minori).

Alla fine del 1888 anche a Pisa si costituisce finalmente un consorzio universitario tra la provincia, il comune e la cassa di risparmio. Qualcuno sostiene l’opportunità che entrino a far parte di esso le province di Lucca e Livorno, ma le resistenze locali (per non dire localistiche) sono decise e la proposta cade. Come si vede l’opposizione al decentramento ha radici antiche. E così, nel settembre 1893, il consigliere Nello Toscanelli noterà a proposito del rapporto tra enti locali ed università: “Pisa è la sola città universitaria che dorma sonni tranquilli sulle glorie passate. Fino ad oggi si direbbe che le pubbliche amministrazioni nostre non si sono accorte di questo movimento, che è il principio della lotta per l’esistenza fra le troppe Università italiane. Si potrebbe credere sotto questo aspetto che Pisa fosse in Oceania, anziché nel bel mezzo d’Italia.

“Questo fatto è tanto più strano in quanto la nostra Università si trova nella condizione sfavorevole di aver 2 concorrenti nella sua stessa regione, per modo che invece di essere gli ultimi ad entrare in lizza, avremmo dovuto logicamente essere i primi...”.

Agli inizi di questo secolo cominciano però a registrarsi consistenti interventi degli enti locali a favore dell’università, che purtroppo dovranno essere interrotti per sopravvenute, insormontabili difficoltà finanziarie.

Nel 1911-12, lo studio pisano conta meno di 900 studenti e scende al decimo posto tra le 17 università regie; rimane comunque la struttura portante della fragilissima economia di Pisa e del suo territorio. La sua fama continua ad essere alimentata da maestri di grande autorevolezza, come Gabba, Buonamici, D’Ancona, Pacinotti, Dini, Toniolo e molti altri.

Nel 1923 Pisa è riconosciuta come università di rango A nella riorganizzazione voluta da Giovanni Gentile e mantiene un notevole ritmo di espansione: nascono le facoltà di ingegneria e farmacia e, nell’anno accademico 1940-1941, gli studenti iscritti sono 1.752.

Ma anche durante il fascismo la dittatura non riesce a soffocare gli ideali di libertà e democrazia di cui si fanno portatori gruppi di professori e studenti. E l’università, assieme alla Scuola Normale Superiore, fornisce un contributo insostituibile di pensiero e di azione alla lotta antifascista e alla guerra di liberazione.

Nel dopoguerra sorgono le facoltà di economia e commercio, di lingue e letterature straniere e di scienze politiche. Tra le grandi facoltà continua a mancare quella di architettura, ma questo è un altro discorso che forse prima o poi dovrà essere ripreso.

La lettura delle vicende universitarie pare fornire legittimazione e credibilità alla tesi che è forse giunto il momento di consolidare ed estendere i rapporti tra università, territorio, enti locali. Occorre forse trovare più solidi raccordi tra mondi che non possono vivere separati. Occorre forse predisporre le linee di una pianificazione incrociata tra università, regione, province, comuni che, nella salvaguardia dei rispettivi obiettivi istituzionali, possa consentire al territorio metropolitano di progredire e di andare avanti anche sulla spinta di apporti scientifici e tecnologici. Del resto solo su questa strada l’università potrà mantenere una posizione di eccellenza nel campo degli studi e delle ricerche e di avanguardia nella promozione della società e dell’economia.

Le cifre per un vigoroso decollo in tal senso ci sono: nel 1942-43 le facoltà erano 8 ed oggi sono 11, i corsi di laurea erano 20 ed oggi 34, gli studenti iscritti erano 4.237 e oggi sono 40.757, i laureati erano 195 e oggi 2.440, i docenti 500 e oggi 1.828, il personale tecnico-amministrativo e delle biblioteche era composto di 192 unità ed oggi di 1.650. E poi l’università conta oggi 41 dipartimenti, 51 corsi di dottorato, 12 corsi di diploma universitario, 3 scuole dirette a fini speciali, 54 scuole di specializzazione e corsi di perfezionamento.

Il sistema universitario pisano, composto anche dalla Scuola Normale e dalla Scuola S. Anna, costituisce, con strutture tanto autorevoli per la produzione e trasmissione del sapere scientifico e professionale, elemento insostituibile di promozione del territorio e della società.

L’area di influenza di una università non è segnata da confini banalmente amministrativi, ma dalla capacità di attrazione e diffusione delle sue strutture didattiche e di ricerca. Esistono perciò le condizioni perché il sistema pisano, forte della sua storia e delle sue tradizioni, possa estendersi a spazi più vasti, situati magari in una inclusiva e coordinata area metropolitana tirrenica. Potranno così schiudersi nuovi orizzonti operativi per un territorio più vasto e più fecondo, possibilità esaltanti per la didattica e la ricerca e per una università nuova, aperta ai problemi della società.

E con questi auspici, che spero possano essere accolti; dichiaro aperto l’anno accademico 1993-1994,650° dalla fondazione.

 

Da: Annuario per gli anni accademici 1990-1995, Università degli studi di Pisa.

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