1971 - Premio internazionale Galileo Galilei a Arthur Dale Trendall

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Palazzo della Sapienza, Aula magna storica, ottobre 1971.

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Discorso del vincitore del Premio Galilei 1971, prof. Arthur Dale Trendall

Innanzitutto desidero ringraziare di cuore la Commissione per il conferimento del Premio Internazionale Galileo Galilei nel campo dell’archeologia e per il verbale così generoso e lusinghiero riguardo al mio contributo allo studio della ceramica italiota. Poi vorrei porgere anche a Lei, Signor Presidente, i miei più sentiti ringraziamenti per la calda accoglienza accordatami nonché per i suoi gentili rallegramenti che apprezzo moltissimo.

Non trovo facilmente parole per esprimere il profondo senso d’onore al conferimento, stamane nell’Aula Magna di quest’illustrissima Università, di un premio così insigne il cui valore nel campo archeologico è stato molto accresciuto dal merito del suo primo vincitore, il compianto prof. Axel Boëthius, mio buon amico e archeologo ed etruscologo di fama mondiale. Oggi è per me un giorno veramente fausto che non dimenticherò mai. Potrei bene esclamare colle parole di Plinio il Giovane, “o diem laetum notandumque mihi candidissimo calculo”, secondo l’abitudine degli antichi Romani di segnalare giorni fausti con ciottoli bianchi, o potrei notarlo in rosso sul calendario come un giorno festivo, ma ne l’uno né l’altro mi sembra sufficiente per un’occasione così propizia e quindi al rosso e bianco propongo di aggiungere il verde - simbolo della speranza, della gioia e dell’amore - e in questo modo notarlo molto appropriatamente col tricolore.

Vorrei anche dire quanto mi piace il premio stesso, un’opera d’arte di uno dei più grandi maestri italiani della scultura moderna, Emilio Greco, nel cui nome vedo un ottimo augurio, poiché è allo studio dell’arte dei greci dell’Italia Meridionale che ho dedicato gli ultimi quaranta anni della mia vita.

A prima vista sembrerebbe forse strano che un individuo che abita agli antipodi si occupi dello studio della ceramica italiota, ma con ogni probabilità la mia nascita ed educazione nella Nuova Zelanda mi hanno ispirato una certa simpatia ed una migliore comprensione dei problemi culturali che affrontano i coloni. La Magna Grecia mi ha sempre affascinato, forse per questa ragione, e dopo aver passato parecchie settimane in quella zona durante l’estate del 1932, quando studiavo archeologia classica all’Università di Cambridge, mi venne in mente che non avrei potuto cercare altrove il mio campo di studio. Decisi senz’altro di perseguire lo studio della ceramica italiota a figure rosse, in parte perché i vasi dipinti hanno sempre avuto per me un interesse particolare come opere originali la cui autenticità è fuor di dubbio, ma, e questa è forse la ragione più convincente, anche perché il detto campo, essendo stato un po’ trascurato, offriva allo studioso una sfida formidabile ma non insuperabile, ed inoltre capace di esser seguita a tappe, una alla volta per ciascuna delle cinque scuole di ceramica.

Negli anni ’30, lo studio dell’arte greca arcaica era molto in voga fra gli archeologi inglesi, in seguito all’opera fondamentale di Humfry Payne sulla ceramica corinzia e, un po’ più tardi, al suo capolavoro sui marmi dell’Acropoli di Atene, e quasi tutti i miei contemporanei si dedicavano a questo studio. Io sembravo quasi un traditore, almeno un eretico, lasciando la Grecia per la Magna Grecia, preferendo il quarto secolo a.C. al settimo e al sesto, e questo forse spiega perché per molti anni ho lavorato quasi solo nel mio campo.

Gli scavi del Settecento e dell’Ottocento hanno messo in luce enormi quantità di vasi italioti che a quell’epoca suscitavano molta ammirazione per la loro decorazione florida e per le rappresentazioni dei miti greci; erano classificati però secondo i luoghi di provenienza come apuli, lucani o campani. Il merito del primo tentativo, nel 1885, di una classificazione più scientifica va dato anzitutto allo studioso tedesco Adolfo Furtwängler, che pochi anni dopo rivelò l’esistenza di una fabbrica locale sorta nel 3° venticinquennio del quinto secolo a.C., osservando giustamente, in un gruppo di vasi a figure rosse fino a quel momento ritenuti attici, certe caratteristiche che servirono a farli distinguere dai veri prodotti ateniesi. I detti vasi sono stati probabilmente fabbricati da ceramisti emigrati da Atene, che sono forse arrivati nell’Italia Meridionale subito dopo la fondazione di Turii nel 443.

Nel 1897 Patroni pubblicò il primo studio approfondito sui vasi apuli, lucani e campani delle tre scuole principali, alle quali ha aggiunto una quarta, quella di Paestum che ha creato intorno ai vasi firmati dai ceramografi Asteas e Python. Nel 1912 Macchioro tentò di fare una classificazione ancora più esatta, basata sulle provenienze piuttosto che su criteri stilistici, ma non riuscì bene e non fu seguita dal Ducati quando nel 1924 istituì il sistema di classificazione per il Corpus Vasorum.

Durante i dieci anni seguenti tale studio, e particolarmente nel campo proto-italioto, ha fatto passi avanti, grazie alle ricerche di Tillyard, della signorina Moon, e del compianto Sir John Beazley, il grande protagonista dello studio scientifico della ceramica attica, al cui appoggio sono infinitamente obbligato. I loro lavori hanno reso possibile uno studio più comprensivo della ceramica italiota, per cui il momento veniva a risultare opportuno.

L’enorme quantità di vasi italioti a figure rosse che sono pervenuti ai nostri giorni - e la cifra aumenta ogni anno grazie alle attività delle varie Soprintendenze alle antichità - ha forse scoraggiato coloro che avessero l’intenzione di studiarli e che si trovarono intimiditi dalla prospettiva di prendere in esame circa un migliaio di vasi di ciascuna delle tre fabbriche della Lucania, della Sicilia e di Paestum, oltre 3000 vasi campani, e nell’Apulia più del totale di tutti questi.

Il mio primo problema era di decidere quale era il punto di partenza più pratico per la mia ricerca. Finalmente scelsi Paestum perché mi offriva un buon nucleo coi vasi firmati da Asteas e Python, intorno al quale molti altri si sarebbero lasciati raggruppare perché rassomigliavano molto, dato il loro stile e la loro decorazione, a quelli dei due maestri. I vasi pestani inoltre dimostravano una certa coerenza di stile e le loro raffigurazioni erano frequentemente di grande interesse, soprattutto nelle scene prese dal dramma antico e dalla mitologia greca; il sito stesso di Paestum poi aveva una bellezza straordinaria perché, quarant’anni fa era molto più inaccessibile che non oggi e non aveva perduto il suo classico incanto. La ceramica pestana si trova raramente fuori della zona della città antica e della periferia; moltissimi dei vasi provenienti dai vecchi scavi sono attualmente nel Museo di Napoli, altri sono dispersi fra i grandi musei europei, soprattutto quello di Madrid, che ha acquistato la raccolta fatta dal Marchese di Salamanca quando era incaricato della costruzione della ferrovia da Napoli a Reggio Calabria nel 1867 e, nel corso delle sue operazioni, penetrò una parte della grande necropoli di Paestum e mise in luce molti vasi di pregio, fra cui il famoso cratere di Asteas colla rappresentazione della pazzia di Ercole.

Dopo circa due anni di lavoro riuscii a fare un catalogo di quasi tutti i vasi pestani conosciuti in quel tempo - in complesso poco più di 400 - che fu pubblicato nel 1936 insieme con la storia dello sviluppo della fabbrica. E’ una dimostrazione dell’importanza degli scavi recenti che hanno già messo in luce più vasi del totale esistente trentacinque anni fa e che hanno confermato senza dubbio la localizzazione dell’officina in questo posto. Inoltre sono stati trovati due nuovi vasi firmati, uno da Python - una bellissima anfora raffigurante la nascita di Elena di Troia - e l’altro da Asteas che è venuto in luce ad Agropoli. Cosa ancor più rilevante è che ora è possibile aggiungere un capitolo tutto nuovo alla storia della ceramica pestana grazie alla scoperta di una tomba che conteneva tre splendidi vasi del Pittore di Afrodite, della cui esistenza non avevo nemmeno un’idea venti anni fa quando uscì l’aggiornamento alla mia pubblicazione originale. I suoi vasi dimostrano che l’influsso apulo si faceva sentire a Paestum molti anni prima di quanto avessimo sospettato e che era infatti precisamente coincidente collo stesso fenomeno a Cuma.

Finito il mio lavoro a Paestum, mi sono rivolto allo studio della ceramica protoitaliota che mi sarebbe servito come introduzione ad una investigazione più profonda delle fabbriche dell’Apulia e della Lucania, ma subito dopo la pubblicazione del mio primo saggio accettai un invito da parte dell’Università di Sydney alla cattedra di studi greci, abbinata più tardi all’archeologia classica. La grande distanza dall’Italia e l’inizio della seconda guerra mondiale causarono una sospensione delle mie ricerche per dieci anni circa. Dopo la guerra mi occupai dell’ampliamento del Museo Nicholson dell’Università di Sydney che era veramente fortunata per il possesso di un’ottima collezione di vasi antichi acquistata verso la metà dello scorso secolo dal suo primo Cancelliere, Sir Charles Nicholson, che nel 1860 la donò all’Università rendendosi conto del valore di una tale raccolta per l’insegnamento della letteratura e dell’arte classica, soprattutto in un paese lontano dai centri europei come l’Australia. Dal 1946 al 1950 quando non era facile viaggiare per l’Europa, ho avuto la buona fortuna di poter aumentare la collezione del Museo perché ho potuto comprare a prezzi modesti alle vendite all’asta sul mercato di Londra moltissimi vasi provenienti dalle vecchie collezioni di privati inglesi. In questo modo il Museo Nicholson ha acquistato parecchi pezzi notevoli, e dopo poco altri musei e gallerie australiane hanno seguito l’esempio dell’Università di Sydney. Benché l’Australia sia entrata nel campo dell’antichità per ultima e con mezzi insufficienti per acquistare capolavori e preziose sculture, nondimeno, durante gli ultimi venti anni c’è stato un incremento molto significativo nelle nostre collezioni di ceramica antica e di opere minori d’arte classica, con un immenso vantaggio per gli studenti, per gli artisti, e per il pubblico perché nel mondo nuovo l’arte antica promuove in tutti non solo interesse ma anche stimoli fortissimi.

Nel 1951, quando il viaggiare divenne di nuovo possibile, rientrai in Italia per ricominciare i miei studi da lungo tempo interrotti. La ceramica italiota è dispersa veramente dappertutto nel mondo - non c’è museo di antichità, infatti, che non possegga almeno due o tre vasi, e per conseguenza gli studiosi di questa ceramica hanno bisogno di fare molti e lunghi viaggi per le loro ricerche. Che tale studio sia possibile in un lontano paese come l’Australia è dovuto al miracolo dei mezzi moderni di trasporto.

Trovo molto eccitante lasciare Melbourne oggi e essere a Roma l’indomani mattina. L’enorme distanza fra i due paesi non è più una barriera, è piuttosto un vantaggio, perché quando si fa un percorso così lungo per la ricerca del materiale si intensificano gli sforzi per raggiungere gli scopi prefissi.

Dal ’51 al ’55 fui occupato per la riclassificazione dei vasi italioti del Museo Gregoriano Etrusco in Vaticano e per la preparazione del catalogo della collezione. Questo lavoro mi condusse allo studio generale della ceramica lucana, campana e siceliota che fu pubblicato pochi anni fa. Per dimostrare quanto diffusi siano questi vasi informo che ho dovuto viaggiare, per la maggior parte in aereo, per un milione circa di chilometri al fine di esaminarli personalmente. Ho sempre pensato che uno studio degli originali è indispensabile in quanto le fotografie, pur ottime, nell’ultima analisi stilistica possono ingannare. Dovrò rifare altrettanti chilometri per lo studio in corso sulla ceramica apula - non vi meravigliate dunque se i miei colleghi mi chiamano l’archeologo volante.

Di tutte le fabbriche italiote quella dell’Apulia è di gran lunga la più difficile da classificare, perché il maggior numero dei vasi di piccole dimensioni mostra una notevole uniformità di stile e di rappresentazione che difficilmente differenzia le opere del maestro da quelle dei suoi allievi. Una continua revisione si rende quindi indispensabile per una più precisa classificazione, particolarmente del nuovo materiale messo in luce dagli ultimi scavi che ci fornisce spesso le indicazioni necessarie per la corretta identificazione di un vaso che fino a quel momento non aveva attribuzione.

A questo punto vorrei pagare un tributo particolare ai miei colleghi nei vari musei e nelle soprintendenze italiane, i quali con squisita cortesia hanno sempre offerto un forte appoggio alle mie ricerche. La discesa ogni anno dalle nuvole della “rondine dell’inverno”, come mi chiamano, credo sia stato un gran disturbo e perciò desidererei cogliere quest’occasione per esprimere loro i miei più sentiti ringraziamenti per la loro amichevole cooperazione senza la quale non avrei mai potuto fare progressi.

E quali sono stati i frutti del mio lavoro? Anzitutto c’è la soddisfazione personale nel vedere la confusione cedere all’ordine, nel sapere che un detto vaso è stato giustamente collocato nel suo contesto stilistico e cronologico, e che altri della stessa mano che eventualmente vengano in luce possano esser classificati senza più difficoltà. Poi i miei studi mi hanno portato ad un apprezzamento più profondo dei talenti artistici dei coloni della Magna Grecia, dei loro costumi e della loro vita quotidiana. La ceramica italiota irradia anche molta luce sulla letteratura greca, particolarmente sul dramma antico, ed è interessante ricordare che le tragedie dei tre grandi maestri greci continuarono a suscitare l’entusiasmo dei coloni più di cento anni dopo la loro prima produzione in Atene. I vasi ne riportano molte illustrazioni, alcune di gran pregio soprattutto per la ricostruzione di quelli perduti, e le recenti scoperte hanno messo in luce un numero straordinario di vasi, che ci offrono nuove raffigurazioni delle tragedie seguenti: la Niobe ed il Prometeo Liberato di Eschilo; l’Alcesti, l’Antiope, il Crisippo, i Figli di Ercole, l’Ippolito e la Steneboea di Euripide, e la più significativa di tutte, una rappresentazione dell’Edipo Re di Sofocle che ci dà i personaggi principali del dramma in piedi sul palcoscenico, con indosso i tipici costumi elaborati della tragedia. I cosiddetti vasi fliacici con le loro divertenti parodie del dramma classico e dei miti ben conosciuti e colle rappresentazioni comiche di eroi come Ercole e Odisseo, ci conducono ad una migliore comprensione della commedia del IV secolo a.C. e ci danno testimonianze pregevoli per il suo allestimento e per i costumi, e ci ricordano che lo spirito non era un monopolio attico.

Dai vasi italioti possiamo anche imparare molto della vita di tutti giorni dei coloni e degli indigeni che ci sono talvolta raffigurati, col tipico costume della regione e con le caratteristiche armi osche o sannite. Ci danno pure la possibilità di studiare un ramo dell’arte greca che si è sviluppato indipendentemente dalla madre patria e quindi questo studio è materia di confronto molto interessante collo sviluppo dell’arte in America e in Australia.

La fabbricazione nell’Italia Meridionale di vasi a figure rosse, al cui studio ho dedicato la maggior parte della mia vita accademica, ebbe termine verso il 300 a.C., poco dopo l’occupazione della Campania da parte dei Romani, e prima della loro conquista di Taranto nel 273, e di Siracusa nel 212. L’influsso enorme che il contatto colla Magna Grecia ha avuto sui Romani è evidente nell’arte e nella letteratura romana. Livio Andronico, un Tarantino, ad esempio, portò il dramma a Roma; Ennio, nato a Rudiae, scrisse tragedie in latino, basate su modelli greci; nelle commedie di Plauto si nota un riflesso non solo delle commedie greche ma anche dei drammi fliacici dell’Italia Meridionale. Le pitture murali di Pompei ci danno pallide visioni dei capolavori perduti dell’età ellenistica, ed i dipinti recentemente scoperti nelle tombe di Paestum sottolineano la continuità della tradizione artistica che è manifesta attraverso la storia dell’arte italiana.

Col tempo la civiltà romana ha raggiunto anche gli “ultimi Britanni”, ed ora, dopo circa due millenni, gli “ultimissimi Britanni” se è lecito chiamare così gli australiani, traggono di nuovo quel “vital nutrimento” dalle perizie e dalle arti della nazione più dotata d’Europa. Dopo la Gran Bretagna, è l’Italia che ha portato il contributo più significativo in Australia, “artes intulit agresti Latio”, e dalla corrente degli immigrati italiani il mio paese ha derivato un bene incalcolabile.

Se io avessi potuto porgere anche un contributo modesto alla migliore comprensione di una delle fonti della cultura italiana, sarei onorato; in ogni modo sono felicissimo che per la continuazione delle mie ricerche io debba ritornare ogni anno in Italia che considero in questo lieto giorno con molta fierezza come la mia seconda patria.

 

Da: http://www3.humnet.unipi.it/galileo/Fondazione/Vincitori%20Premio%20Galilei/Arthur_Dale_Trendall.htm (consultata in rete il 3.2.2006).

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