1961 - Commemorazione del 113° anniversario della battaglia di Curtatone e Montanara

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Cortile del Palazzo della Sapienza, 29 maggio 1961.

Francobollo emesso il 3 maggio 1948

Commemorazione del 113° anniversario della battaglia di Curtatone e Montanara e del centenario dell’Unità d’Italia, tenuta dal prof. Ettore Passerin d’Entreves, nel cortile del Palazzo della Sapienza il 29 maggio 1961

 

L’immagine semplificata dalla lotta per l’unificazione italiana, come d’una battaglia condotta da quattro grandi personaggi-simboli, che non occorre qui neppure nominare, fra studiosi e studenti, turba alquanto le menti di coloro che s’occupano con più impegno e con più scrupolo di quegli eventi, di coloro che preferiscono non ridurre la storia ad una sorta di rappresentazione scenica, con pochi e astratti protagonisti. A costoro piace di riprendere l’insegna alzata già da un geniale saggista militante, studioso e combattente per la libertà, voglio dire da Piero Gobetti, e parlare, in contrasto con ogni semplificazione retorica, d’un «Risorgimento senza eroi».

Risorgimento senza eroi vuol dire sopra tutto due cose per noi, oggi: vuol dire intendere l’unità come costruzione di molteplici forze, di molteplici gruppi e correnti, spesso fra loro contrastanti, in concorde discordia. II destino personale delle «guide» (e non certo soltanto dei maggiori personaggi simboli, di cui sopra s’è accennato), fu del resto per lo più molto simile a quello di certi personaggi di tragedia, che s’immolano o periscono prima ancora di toccare la terra promessa: e non penso, dicendo questo, soltanto ai caduti delle battaglie del ‘21 o del ‘48, ai martiri di Belfiore o di Sapri, ma allo stesso Cavour, combattente inerme, che muore consumato dal suo sforzo, il 6 giugno del ‘61. Penso ancora alla vittoria amara del Mazzini, che vede sì trionfare l’idea unitaria, ma in una versione per lui assurda e corruttrice. In secondo luogo, diseroizzare l’impresa dell’unificazione vuol dire per noi oggi eliminare non soltanto le leggende dorate di cui sono circonfusi certi personaggi, ma eliminare la tirannìa dei pretesi valori assoluti, cominciando dal cosiddetto principio di nazionalità o dall’unità eretta a principio, a porta d’ingresso di una sorta di sancta sanctorum politico, che rischia di riportarci ad una bella e buona idolatria. Non ci sono mete definitive, né idee senza macchia nel faticoso, incessante travaglio di adeguamento delle forme politiche ad esigenze sempre nuove: il positivo può ad ogni istante trasformarsi in negativo, la conquista in un ostacolo, l’entusiasmo creativo in fanatismo distruttore. Ricordiamo, per restar fedeli al nostro tema, le felici considerazioni di Adolfo Omodeo sulle teorie dei «primati», delle «iniziative» o «missioni» nazionali romantiche, già accennanti al nazionalismo aggressivo ed esclusivo; più di recente, il bel saggio dell’inglese Namier su «nazionalità e libertà» ha condotto anche più oltre il fermento critico di fronte agli aspetti irrazionali dei moti patriottici dell’Ottocento - che pur nacquero in atmosfera europeistica, ed accettarono spesso il temperamento delle forze tradizionali orientate in senso sopranazionale.

Non c’è ragione di restar sospesi nella stratosfera delle discussioni sui principi, quando si può far luce sui problemi grossi con la piccola lampada della paziente erudizione: e piace qui ricordare l’onorevole esempio di quell’onesto studioso, Ersilio Michel, che ha indagato così a fondo sul concreto svilupparsi degli ideali di libertà e d’indipendenza nazionale nel piccolo mondo dell’università pisana, fra «maestri e scolari», come diceva, dell’ateneo pisano. Nella sua indagine torna a vivere la figura di un Michele Carducci, che per ragioni politiche doveva esser confinato a Volterra, e vi sposava una giovane, che avrebbe generato il poeta-patriota Giosuè. Ma già Michele Carducci, studente di medicina a Pisa, nel 1831, aveva sognato il tricolore sventolante sul Campidoglio, ed aveva scritto troppo baldanzosamente ad un amico: «La Toscana aspetta di essere trascinata al suo rinascimento. La piazza di Livorno è in pronto, Pisa pur lo è per reagire in tempo, ma si sostiene dai capi esser necessario aspettar le mosse del Piemonte». Poche frasi, sufficienti del resto a procurargli un provvedimento poliziesco, e sufficienti per darci un’idea dell’affiorare di elementi contrastanti, che già coesistono e si giustappongono, nella mente d’un cospiratore del ‘31. C’è l’ideale unitario, simboleggiato nel tricolore che sventola sul Campidoglio, e c’è un certo spunto federalistico nel piano d’azione insurrezionale, poiché si parla d’una iniziativa piemontese, alla quale la Toscana deve in qualche modo ubbidire. C’è l’affetto municipale, a ben vedere, in quel fiducioso rivolgersi alla «piazza», e potremmo quasi dire alla plebe, intesa in senso non deteriore, della Livorno generosa e insofferente, cui Pisa deve rispondere, con la maturità della città più colta e pacata. In un’altra lettera si parla anche d’un aiuto che deve venire dalla Francia, dal gran centro motore rivoluzionario... Il problema del «Risorgimento» è dunque già un problema europeo, oltre che un problema nazionale, nel’31 come nel ‘48 e nel ‘61: ma quanto cammino dev’esser ancora percorso, nel pensiero e nell’azione, per oltrepassare quelle prime acerbe impostazioni.

La distanza che separa il ‘31 dal ‘48 e dal ‘61 è per se stessa, se non vado errato, un problema storico, è anzi il vero tema da affrontare in questa mia breve relazione. Se penso ad uno storico del Risorgimento, che si sia avvicinato con mente aperta, e con preparazione amplissima, a siffatto problema, penso subito allo studioso che più mi è stato caro in tal campo, e che dobbiamo ricordare con dolorosa commozione, poiché ci è stato strappato anzi tempo dalla morte, nell’aprile scorso: Walter Maturi, quel Maturi che qui viene ricordato con affetto da colleghi, discepoli ed amici. Possa gradire il tenute, inadeguato ricordo, l’omaggio resogli con animo dolente e devoto.

Al Maturi è riuscito, dicevo, di coglier meglio d’altri il senso della concreta dialettica in cui ebbe ad articolarsi la battaglia civile e politica del Risorgimento, nel decennio che fu detto di preparazione, e che meglio si direbbe di trasformazione: una dialettica che si svolge fra i due poli del vecchio Stato regionale, rafforzato attraverso la spinta progressiva del riformismo liberale-moderno, e dell’ideale unitario-democratico, venato di esigenze più rivoluzionarie, eversive almeno nei confronti degli Stati regionali, di certe loro tradizioni particolaristiche, impregnate di vecchi umori dinastici e misoneisti. Ma se prima della catastrofe quarantottesca tutto sembrava convergere verso un rafforzamento dei molteplici centri di vita culturali e politici, che da secoli caratterizzavano la realtà italiana, fra il ‘48 ed il ‘60 assistiamo all’improvviso decadere di questi centri, delle forze politiche che vi si annidano, con la sola eccezione del Piemonte liberale: per uno strano paradosso, tocca a quel Piemonte, che sembrava dover esser quasi come una pietra d’inciampo per il rapido evolversi delle idee più avanzate, democratico-unitarie, di proporsi come il nucleo mediatore tra le due maggiori correnti ideologiche, garantendo tuttavia sopratutto la sopravvivenza dell’ala moderata dei vari gruppi dirigenti, e spingendoli per lo meno ad assimilare una certa parte del programma dei radicali.

Il residuo profetico, oppur vagamente apocalittico, che s’associa all’ottimismo dei profeti rivoluzionari, dei patrioti radicali d’ogni tinta, dal Mazzini al Cattaneo, riceve qui la sua più cocente umiliazione. La realtà si rivela più complessa dei sistemi ideologici, sfugge alla morsa dei dilemmi retorici, alle dogmatizzazioni delle varie teologie politiche romantiche, d’ispirazione democratica o reazionaria. Il Cattaneo, che del resto era il più alieno, fra i democratici, dalle accennate inclinazioni profetico-sistematiche, avrebbe invano scagliato il suo anatema contro il vecchio Piemonte dinastico e feudaleggiante, all’indomani del ’48, accusandolo d’esser entrato in Lombardia col «guardinfante» dell’etichetta, del gesuitismo, della polizia, della diplomazia. Il Cattaneo aveva perfettamente ragione del resto, quando gioiva di vedere cadere nel nulla un sogno di cortigiani e di sofisti, che aveva rischiato di trasformarsi in realtà, col nome di «regno dell’Alta Italia, e giustamente concludeva il suo saggio sull’insurrezione di Milano ammonendo il Piemonte a non rammaricarsi di quello scacco: «Il Piemonte, scriveva non lo deplori; era una grandezza mendace, una contraffazione della conquista austriaca; era la tunica avvelenata del centauro. Ma soggiaceva a sua volta alla tentazione del milanesismo camuffato sotto il velo della critica progressista, quando negava ai piemontesi qualsiasi parte e qualsiasi via d’accesso al movimento nazionale: «questa guerra, affermava, accennando alla fallita campagna d’indipendenza del ‘48, diede al Piemonte ed alla Sardegna il tricolore italico, ignoto ancora a quelle regioni, com’era loro ignoto l’orgoglio dell’italica nazionalità». Il Cattaneo dimenticava i non sterili sforzi della generazione del 1821, che aveva trascinato persino il perplesso Carlo Alberto verso il Ticino, che gli aveva posto nelle mani il tricolore e la costituzione, che aveva contrapposto la patria ideale di Alfieri al conglomerato di province eterogenee che costituiva il vecchio Stato dinastico sabaudo, a cavallo sulle Alpi. Risalendo più indietro, si potrebbe ricordare il curioso italianismo di certi dotti subalpini del Settecento, e la loro tenace resistenza alla francesizzazione culturale, prima in funzione antilluministica, poi anche in contrasto con l’egemonia napoleonica. Per altri aspetti, questa cultura piemontese fra Settecento ed Ottocento è più modesta e provinciale di quella che fiorisce in Lombardia, in Toscana, a Napoli e a Venezia, ma per il patriottismo culturale emerge rispetto a ogni altra corrente regionale, ed i miti nazionali, già venati d’irrazionalismo, suscitati dall’allobrogo Vittorio Alfieri, alimentano gli entusiasmi giovanili dei patrioti di regioni che hanno più gloriose tradizioni di cultura: abbiamo delle testimonianze che ci assicurano che la bella edizione pisana degli scritti dell’Alfieri non cessava di diffondersi fra le studentesche di questo ateneo. Ed accanto ad motivo nazionale, l’astigiano nutriva i sentimenti libertari, le insofferenze, i fermenti critici, che il paterno governo granducale abilmente cercava di addormentare. Bastino questi rapidi accenni a far presente come vari motivi si intrecciassero, pur nella reciproca apparente incomprensione, nel movimento culturale che preparava l’azione del ‘48 e del triennio dell’unificazione. E poiché desideriamo fissare lo sguardo più particolarmente sulla cultura toscana fra il ‘48 e il ‘60, per cogliervi i sintomi di una crisi di crescenza che distrugge alcuni miti, ma provvede tosto a ricostruire su di un più solido terreno, soffermiamoci sul breve e tormentato esperimento democratico del primo trimestre del 1849, quando si vide come abbozzato in Toscana quel concetto che l’onesto fucecchiese Montanelli aveva bandito fin dall’ottobre del ‘48 in Livorno, dov’era giunto come pacificatore ben più che come governatore, inviato dal Capponi: il concetto d’una costituente eletta a suffragio universale, e d’un governo democratico che gettasse un ponte tra Firenze e gli altri centri politici più vivi, in cui si persisteva a lottare per la libertà contro l’Austria minacciosa e vittoriosa.

Poiché abbiamo nominato il Montanelli, è giusto soffermarsi per un istante a ricordare qual parte egli aveva avuto nella campagna d’indipendenza della primavera del ’48, prima d’assumer gravi incarichi di governo. Al Montanelli toccò la bella sorte di simboleggiare la solidarietà sofferta fra discenti e docenti sul campo di Curtatone: non ch’egli comandasse, come qualcuno scrive sbadatamente, il famoso battaglione pisano-senese di universitari, e neppure in quanto fosse il primo o l’unico ferito. Morì uno fra i combattenti che gli era particolarmente caro, il Parra, tra le file dei bersaglieri comandati dal Malenchini. Morì, primo fra tutti, il Pilla, poi lo Sforzi, e con questi circa venticinque studenti.

Si salvò a stento Cesare Studiati, allora dissettore di anatomia comparata, e poi stimatissimo docente nell’ateneo pisano: lo Studiati fu fatto prigioniero, come il Montanelli, dagli austriaci incalzanti. Il Montanelli fu creduto morto, mentre era appena ferito: il Mazzini ne scrisse un commosso necrologio, che possiamo rileggere sul giornale pisano caro al Montanelli stesso, L’Italia...

Ritornato dalla breve prigionia, il Montanelli ci appare come un corifeo della corrente democratica, ma non è un astratto né un intransigente: accetta infatti dal moderato Gino Capponi, come già notavo, un delicato, difficilissimo incarico: intervenire come pacificatore, sopire il dissenso che pareva separare le due città rivali e gelose, Firenze e Livorno. Accettando tale incarico, notava però di voler governare Livorno come «eletto del popolo», non come un funzionario imposto dall’alto, e dichiarava tutta la sua simpatia per l’uomo che pareva allora incarnare la passione democratica dei livornesi, Francesco Domenico Guerrazzi. Sennonché, formatosi un governo democratico in cui proprio il Guerrazzi gli doveva essere compagno, il Montanelli finiva per accorgersi che il democraticismo guerrazziano era assai incerto ed instabile, e che al Guerrazi si dovevano riconoscere le doti di oratore e di capo-popolo, meglio che quelle dello statista. Idoleggiato dai suoi concittadini, il Guerrazzi non doveva riuscire neppure a superare l’istintivo municipalismo di cui era segnato, come tanti altri toscani del suo tempo: l’aver tenuto per parecchio tempo a Firenze tre compagnie di volontari livornesi, a garantir la libertà, formalmente, ma in modo tale da far pensare un po’ ad una guardia del corpo di fedeli suoi, e di fedeli assai poco comodi da trattare e da tener disciplinati, già definisce un grave limite della larvata dittatura guerraziana: e forse a lui pensava il Montanelli quando scriveva, sette anni più tardi, che «il messianismo politico, l’aspettazione del tale o del tal’altro salvatore, questa vecchia malattia del partito italiano, doveva dar luogo a poco a poco ad uno sforzo generale per la conquista della libertà».

Al Montanelli, non al Guerrazzi, si appellava il Mazzini nel febbraio del ‘49, quando cercava di propagandare a Firenze, con l’idea repubblicana, quella di realizzare al più presto una costituente italiana, e di porre la capitale a Roma. La fuga del pontefice e quella del granduca, che si rifugiavano, uno dopo l’altro, nella fortezza di Gaeta, ospiti del più reazionario fra i sovrani d’Italia, pareva porgere il destro ad una mossa audace, ad una rivendicazione solidale dei diritti dei popoli d’Italia. Ma a questo punto era dato misurare l’immaturità dell’opinione: oltre alla persistente tensione fra diversi centri politici regionali, alle diffidenze fra i governi, che tardano ad unirsi nell’azione comune, malgrado l’incombere d’una comune minaccia, quest’immaturità si palesa nel momento in cui si ricorre, in Toscana, al suffragio universale per le elezioni del Consiglio generale. Le masse sono ancora, più che indifferenti, estranee, anzi timorose del nuovo.

Attorno ai circoli popolari democratici non si stringono che pochi adepti: fra le città in cui si è diffusa già la nuova coscienza civile e patriottica, e le campagne, c’è ancora un abisso. Leggiamo la relazione del ministro degli interni del governo democratico toscano, Marmocchi, alla quale giustamente ha dato molto rilievo di recente il Di Nolfo, nella continuazione della Storia del Risorgimento dello Spellanzon: «Le popolazioni della campana sono mediocremente disposte all’idea della guerra; le campagne nostre in parte negano mobilizzarsi in guardia nazionale. Parecchi gonfalonieri mandano preghiere di esser dimessi, non sentendosi il coraggio civile di affrontare l’antipatia delle popolazioni per la mobilizzazione... Lo stato di ignoranza, in cui si trova parte delle popolazioni toscane, fa che queste tepidezze non prendano sempre un aspetto fiero, ma in molti luoghi... questa repugnanza si converte in modi più sensibili».

Quest’ultima frase era un eufemismo, evidentemente, per non dire che in certe zone si potevano avere da un momento all’altro delle sollevazioni contro il regime democratici, già preannunciate da sparsi tumulti, e stimolate da gruppi di affezionati granduchisti di tendenze anticostituzionali. Invano poi lo stesso ministro dell’interno si sforzava di dimostrare che a Livorno ed a Firenze tutta la gioventù era pronta a levarsi in armi: quando il Guerrazzi, richiesto dai rappresentanti del circolo popolare di proclamare senza indugi la repubblica a Firenze, aveva chiesto che si mettesse alla prova l’asserito ardore dei giovani per il nuovo regime presentando duemila volontari armati in piazza della Signoria, se n’eran potuti raccogliere appena duecento. Soltanto Montanelli, più tenace nel sostenere la necessità di tagliare in ogni modo e ad ogni costo i ponti col passato, ed attratto dal grande disegno di saldare lo Stato toscano con Roma repubblicana, persisté nel proporre la proclamazione della repubblica: il Guerrazzi, che soleva passare dall’eccesso dell’ottimismo all’eccesso opposto, dichiarava amaramente al Mazzini: «Il nostro segreto è questo. I soldati si sbandano. Non siamo nulla». E credeva che l’arte di governo consistesse ormai soltanto nel nasconder quel segreto vergognoso: quindi finiva per preparare, in segreto, con maneggi di persone fidate, la restaurazione granducale Trovava solidali in questo quei patrioti moderati che prima lo avevano temuto e che avevano cominciato a dargli un appoggio condizionato quando avevano compreso ch’egli non era se non un uomo da compromessi, sotto la maschera d’un democraticismo tutto retorico; quei patrioti moderati che non avevano ancora imparato a diffidare della dinastia granducale austro-lorenese, e ad alzarsi al di sopra della visuale angustamente regionalistica, al di sopra della Toscanina (per servirci della formula ironica coniata più tardi dal Ricasoli e dai suoi fedeli).

Il Montanelli lasciò Firenze prima della restaurazione granducale, che ebbe luogo nell’aprile del ‘48, e fu tosto accompagnato dall’occupazione austriaca, poi anche dalla revoca delle libertà costituzionali e trascorse il decennio di preparazione (che si dovrebbe meglio chiamare decennio di trasformazione) a Parigi. Meditò come altri patrioti italiani sul rapido declino della politica riformistica promossa dai sovrani (unica eccezione il Piemonte), e della collaborazione fra i governi regionali, in vista di un’azione comune contro l’egemonia austriaca. I moderati giungevano tosto a riconoscere che l’unico governo rimasto fedele alla libertà, il governa subalpino, poteva assumere una funzione di guida nella lotta per l’indipendenza italiana.

Il Montanelli, democratico, restò a lungo diffidente nei confronti del Piemonte monarchico, in cui parevano dominare tendenze politiche liberali conservatrici, e legate a un certo egoismo regionalistico. Nel ‘56, tuttavia, dichiarava di fidare nel Piemonte, un po’ come il lombardo Pallavicini, come il veneziano Manin, come Garibaldi:

«Fortunatamente, scriveva allora, fu il Piemonte che salvò l’Italia dal piemontesismo. Il Piemonte del 1856 non è più il Piemonte del 1848: la libertà vi ha gettate radici profonde: il paese ha imparato a fare i fatti suoi egli stesso per la forza delle cose. Un partito sinceramente costituzionale si è formato; la politica liberale soppiantò la politica tradizionale degli interessi dinastici».

Si formava così, grazie all’adesione di patrioti già schierati nelle file della democrazia repubblicana e di simpatie unitarie, quello che vorrei chiamare un contrafforte democratico per la fortezza politica che Cavour stava costruendo, su fondamenta monarco-costituzionali e liberal-conservatrici. Ma quello di Cavour era appunto un conservatorismo aperto al dialogo con altre correnti e portava ad abbandonare l’angusto programma d’una esclusiva egemonia piemontese. Quel che v’era di saldo nelle vecchie strutture statali subalpine, quella maggior devozione allo stato, quel civismo che caratterizzava la tradizione regionale-statale piemontese, si arricchivano di linfe nuove, col mettersi al servizio d’un ideale patriottico più ampio, nel quale tuttavia giungevano a portare un’eredità positiva. L’apparente ostacolo basti pensare alle appassionate e tendenziose, ma sincerissime critiche rivolte allo spirito retrogrado, autoritario, cortigiano, della classe dirigente sabaudo-subalpina, dal democratico Cattaneo, all’indomani della catastrofe quarantottesca - l’apparente ostacolo del piemontesimo diveniva strumento e molla principale per l’azione indipendentistica, ed a ciò contribuiva principalmente la politica cavouriana detta delle alleanze, in contrasto con la formula adottata nel ’48 da Carlo Alberto, ed ancora ritenuta valida da non pochi democratici: l’Italia farà da sé. Poteva, è vero, apparire molto pericolosa la collaborazione e l’intervento in Italia d’un alleato ambiguo, come l’imperatore Napoleone III, che non poteva non agire secondo interessi nazionali francesi, ed ambiva, col suo popolo, a raggiungere le frontiere nazionali anche sulle Alpi. Ma la tanto deprecata cessione di Nizza e Savoia, che avrebbe aggravato, tra l’altro, il rancore del nizzardo Garibaldi contro il Cavour, rappresentava appunto la rottura con la tradizione dinastico-regionale dello Stato sabaudo, composto di province eterogenee, e costretto quindi a cercare nella fedeltà a un comune sovrano l’elemento di unità e la base precipua per ogni forma di civismo. Ormai poteva affermarsi un nuovo civismo, poggiante essenzialmente sul patriottismo liberale - mentre alla mentalità del Cavour e di gran parte della classe dirigente subalpina poco garbavano i miti e le forme retoriche del patriottismo democratico, centrato sulla tradizione di Roma repubblicana e sulla classicità; quelle forme retoriche di cui sono impastate le strofe vibranti (troppo vibranti, e poeticamente fragili) dell’inno di Mameli. Ma malgrado ogni dissenso, malgrado la tensione fra cavouriani e garibaldini, che raggiungeva, com’è noto, il punto culminante fra l’estate del ’60 e la primavera del ’61, un fecondo dialogo s’era aperto, ed aveva trovato la sua sede ideale - l’unica possibile, per sfuggire la guerra civile - nel parlamento subalpino, che possiamo ormai chiamare italiano, dacché s’è arricchito via via di deputati provenienti da tutte le regioni che avevano dichiarato di voler far parte del regno sabaudo-italico, mediante libere votazioni. Fu notato di recente che i plebisciti per le annessioni avevano un certo carattere «caotico», che sapevano tutt’insieme di improvvisazione e di cosa organizzata dall’alto. C’è qualcosa di vero anche in questi rilievi critici, che paion ricalcare vecchi motivi polemici di avversari della politica nazionale cavouriana, appartenenti a gruppi disparati: neoguelfi legittimisti, che rimpiangevano i sovrani spodestati, o l’autonomia regionale perduta con la vittoria di Cavour e del programma unitario; democratici unitari, ad quali però l’unità monarchica appariva imposta dall’alto; austrofili e papalini, associati nella comune avversione contro un liberalismo che appariva irrispettoso dei diritti della Chiesa e del pontefice, ed eversivo rispetto ad ogni legittima sovranità. Eppure anche a quei motivi critici si può far posto, senza ricalcare la strada battuta dai laudatores temporis acti, dai misoneisti d’allora e di adesso. Si può rilevare che le dittature nazionali dei Farini e dei Ricasoli, in Emilia ed in Toscana, non sfuggivano ai vizi del paternalismo, anzi ricordavano stranamente certe tendenze del despotismo illuminato settecentesco, con le loro riforme dall’alto, con gli stretti limiti posti alla libertà di stampa (limiti però soppressi immediatamente dopo le annessioni, e che non erano mai stati ammessi da un Cavour, neppure dopo l’attentato Orsini e le pressioni francesi ‘58), con la molto ristretta competenza riconosciuta alle assemblee regionali, di coi pure era stata sentita la necessità, per convalidare il dichiarato proposito di legare le sorti del paese a quelle del regno italico di Vittorio Emanuele. Per citare ancora una volta l’opinione personale del nostro Montanelli, noi potremmo ricordare com’egli dissentisse formalmente da tal politica di dittatura nazionale e giungesse addirittura a rifiutare di votare per l’annessione: un rifiuto che doveva costargli la perdita quasi totale della sua fama come patriota, dato che l’enorme maggioranza dava al voto un significato simbolico, di adesione al nuovo regime e dato che Garibaldi stesso l’aveva supplicato di non far scandalo, dissentendo. Per di più egli s’era reso sospetto come fautore d’un regno separato dell’Italia centrale, posto in mano ad un napoleonide, quindi posto sotto la tutela francese, in parte. Invano qualche autorevole studioso, e in special modo il Rosselli, ha tentato di scagionare il disinteressato Montanelli, e di spiegare questa curiosa simpatia per la candidatura del principe Gerolamo Napoleone, accentuandone il carattere provvisorio: i documenti diplomatici pubblicati più di recente dal Saitta han confermato che il Montanelli, pur senza aver promosso in alcun modo intrighi dinamici, collegandosi a fautori del suddetto principe, simpatizzava schiettamente per siffatta candidatura. Cerchiamo dunque di vedere il vero significato politico del dissenso montanelliano, che idealmente ha un interesse notevole, anche se non provoca alcun scisma nella grande chiesa del movimento nazionale: malgrado la proclamata fiducia nel Piemonte costituzionale, anzi in quello che potremmo chiamare ormai il Piemonte nazionale del ‘60, il Montanelli non si sente di aderire alla politica delle annessioni cavouriana, in quanto sente che una rapida unificazione sotto il segno monarchico-costituzionale, e per opera d’una classe politica appena appena convertita ad una politica di dialogo e di fiducia democratica, poteva dar luogo a gravi delusioni. In secondo luogo, il Montanelli incarnava una tradizione culturale toscana, che si sentiva minacciata da un troppo rapido assorbimento, quando il trionfo dei principi unitari significasse anche il prevalere di metodi d’accentramento piuttosto autoritari come si poteva presagire attraverso il precedente dei decreti rattazziani del ‘59. Il Montanelli, se anche riusciva fastidioso e si svelava come poco destro nel gioco politico, proponendo l’espediente infelice della candidatura del principe Napoleone, mostrava però di saper presagire molto bene i risultati del troppo improvvisato unitarismo del ‘60: appena un anno e mezza più tardi, morto Cavour, il Ricasoli avrebbe scelto, sostenuto dalla maggioranza della Destra, la via dell’accentramento autoritario, ed un altro intelligentissimo docente pisano, Giovanni Battista Giorgini, avrebbe glorificato teoricamente i decreti d’ottobre ricasoliani e la centralizzazione ispirata al modello francese. Tal soluzione semplificava certo molti ed ardui problemi amministrativi e politici che si ponevano alla nuova Italia, e forse contribuiva ad attenuare certe forze centrifughe, rappresentate dai persistenti patriottismi regionali, ma faceva naufragare il progetto di riforma amministrativa del Minghetti, nel quale alitava lo spirito più nordica, anglicizzante od elvetizzante, del liberalismo cavouriano, e che avrebbe portato ad un lento maturarsi delle forze politiche locali, avrebbe educato all’auto-governo. Le semplificazioni autoritarie hanno i loro pericoli, nascosti al primo sguardo, ma sensibili, per dirla con forma anglosassone, on the long run, nella lunga corsa. D’altra parte, l’unità italiana s’era dovuta fare fra pressioni e minacce esterne sempre incombenti, in una sarta di stato d’assedia diplomatico: basti pensare alla tenace ostilità dello stesso governo francese, ch’era stato il primo e principale alleato degli italiani, finché non s’era parlato d’unificazione integrale, e alla crociata antiunitaria dei legittimisti di tutt’Europa, che vedevano nel nuovo regno una base per degli intrighi rivoluzionari, e quasi un’anticamera dell’inferno. Per contraccolpo, il governo dell’Italia unificata assumeva aspetti autoritari, pur non ricorrendo che in casi estremi alle leggi eccezionali ed al regime dei pieni poteri (ciò doveva avvenire, purtroppo, nel già tormentato Mezzogiorno, con la legge Pica per la lotta contro il brigantaggio). La spinta verso nuove esperienze d’autogoverno, versa forme più democratiche nell’amministrazione locale doveva restare sterile: fra i pochi colti che insistevano tenacemente in tal senso troviamo ancor sempre il Montanelli, con altri democratici, collaboratori d’una rivista fiorentina che portava un nome di buon augurio: La nuova Europa.

Possiamo ormai concludere con quest’accenno ad un gruppo di uomini di cultura, piuttosto che d’azione, capaci di resistere ad un’involuzione degli ideali del Risorgimento, che si potrebbe dir nata da un avverso clima storico: è sempre stato questo il compito precipuo degli uomini di cultura, lo staccarsi cioè dalle soluzioni semplificatorie, il procedere contro corrente, per maturare nuovi metodi d’azione, nuove formule dottrinali e scientifiche. Non abbiamo meditata inutilmente sull’esempio che ci han fornito, a tal proposito, nella battaglia politica di cent’anni fa, alcuni illustri patrioti toscani, culturalmente legati al vivace ambiente dell’Università pisana.

 

Da: Annuario dell'Università degli studi di Pisa per l'a.a. 1960-1961, pp. 39-49

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