Ricordo di Nicola Badaloni

Stampa questa pagina

Il 20 gennaio di quest’anno è scomparso Nicola Badaloni. Aveva compiuto da poco ottant’anni. La sua morte ha suscitato un grande cordoglio nel mondo della cultura e in quello della politica che lo avevano visto da sempre attivo protagonista e nei cittadini di Livorno di cui era stato l’amato sindaco “filosofo” dal 1954 al 1966, nei duri anni della ricostruzione.

Il 21 dicembre, data del suo compleanno, è stato un giorno felice per “Marco” (come lo chiamava la madre e come lo chiamava chi era con lui in confidenza), per la sua famiglia e per gli amici che lo hanno incontrato nella sua casa, tra i libri e gli appunti confusamente accatastati, segno della quotidiana, intensa operosità. La mattina ha ricevuto l’omaggio della sua città con la visita del sindaco amico, Alessandro Cosimi. Per l’occasione è stato intervistato dall’“Unità”, giornale cui era legato e su cui era spesso intervenuto. Qui Badaloni esprime le sue preoccupazioni ma anche la sua carica di fiducia. Preoccupazioni per il degrado della vita politica e per il pericolo di nuove violenze e fanatismi, ma anche, in particolare, per le sorti attuali della giustizia e della scuola. Fiducia nei giovani, nella loro energia critica, ed ancora nella possibilità, per la sinistra, di un’intelligenza collettiva e propositiva, una volta vinti gli elementi personalistici e di miope egoismo. Nel messaggio, accanto alle analisi sulla realtà attuale, emergono vivi i ricordi lontani del lavoro da sindaco e, più indietro, episodi di persecuzioni antiebraiche. “Quella comune a me e Carlo Azeglio fu una generazione che ha conosciuto esperienze che nessuno deve più vivere”. Compito principale del politico oggi non è soltanto rispondere ai bisogni della gente ma anche “aiutarla a vincere le paure”.

“«Il guaio è che non misuro tanto bene il tempo. La vita passa in un attimo» dice con accanto la moglie Marcella e la figlia Claudia. Brinda, non a sé, ma alla pace, «il bene supremo». Cosimi lo abbraccia. L’emozione è tutt’altro che formale” - così termina la bella intervista (a cura di Luciano De Majo). Nel pomeriggio una ristretta delegazione di amici-colleghi, in rappresentanza del Dipartimento di filosofia dell’Università di Pisa, tra cui Remo Bodei suo successore sulla cattedra di Storia della filosofia, ha presentato a Badaloni - in un bel clima di affetto e di ricordi comuni, ma anche di riferimenti alle sue ricerche in corso - la prima copia del grosso volume, da loro curato per i suoi ottant’anni, Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano (Edizioni ETS, Pisa). Il volume è una raccolta di saggi di filosofia moderna di Badaloni, sparsi su varie riviste specialistiche e scritti in più anni (dal 1958 al 2000), con presentazioni di Remo Bodei e di Lina Bolzoni e con una bibliografia dei suoi scritti curata da Gregorio De Paola. Un omaggio al suo importante lavoro, capace di mettere in luce autori considerati minori e pensatori inattuali e di rinnovare radicalmente, attraverso una collocazione nel contesto storico, grandi figure viste dalla storiografia idealistica precedente come immerse in una “solitudine metastorica”. La raccolta può avvicinare a questi temi gli studiosi più giovani che non hanno fruito direttamente della sua lezione e può facilitare una definizione più puntuale del ricco percorso di Badaloni, storico della filosofia e della cultura. E questo a partire da quel Rinascimento “inquieto” che tanto lo appassionava e che ha definito, una volta, “confuso crogiuolo del nostro moderno modo di pensare”: epoca di energia e rinnovamento culturale e sociale. La centralità del Rinascimento si lega all’interese per la genesi e la formazione - seguite nei movimenti molecolari e negli indizi più nascosti - più che per la forma finale di un pensiero e di una scienza, spesso restituite cristallizzate e quasi senza storia. Alcuni saggi sono dedicati alla “tempestosa figura” di Giordano Bruno: “affettivamente”, accanto a Marx, il suo filosofo. Al Nolano, Badaloni ha dedicato tra l’altro anche la sua prima importante monografia: La filosofia di Giordano Bruno del 1995 e, in un secondo volume del 1988 (Giordano Bruno. Tra cosmologia ed etica), una rilettura, complementare alla prima, di alcuni temi centrali. La sua ricostruzione si basa su una valutazione storica di ciò che il filosofo nolano ha rappresentato nel mondo scientifico e nell’ambiente sociale della sua epoca e recupera e sviluppa, attraverso percorsi analitici e filologici, l’affermazione di Labriola che vedeva nel suo pensiero il momento in cui un gran contrasto di forze e di correnti sociali, diventa contrasto di idee e di tendenze”. Le fonti, minuziosamente ricercate - Badaloni analizza e ricostruisce le molteplici componenti di cui è intessuta l’opera di Giordano Bruno, dai giovanili scritti lulliani fino alle opere latine della maturità - accompagnano e arricchiscono, negli anni, una ricerca che vuol comprendere il senso del moderno nella sua complessità e nei suoi conflitti.

Il giorno del suo compleanno ancora una volta, quindi, abbiamo incontrato il cuore di Badaloni nei due momenti tra loro strettamente legati: quello di uomo politico e impegnato nella politica e quello dello studioso e maestro di più generazioni. E questo emergeva anche nella cerimonia funebre, nella sala del Consiglio Comunale di Livorno. Hanno partecipato esponenti della politica nazionale come Fassino e Mussi (allievo, con D’Alema, di Badaloni alla Scuola Normale di Pisa), esponenti della politica regionale e locale che hanno voluto salutare un compagno ed una guida di tante battaglie. Giorgio Napolitano in particolare, nella sua commossa rievocazione, ha ricordato il compagno con cui ha condiviso molti anni nel Comitato centrale del PCI, l’animatore, come presidente dell’Istituto Gramsci nazionale, di convegni e iniziative, e l’amico di tempi in cui politica e cultura si intrecciavano fortemente. “Ho trovato - dice Napolitano - alcuni fogli manoscritti dove esortava gli intellettuali comunisti a respingere gli atteggiamenti cortigiani e ricordava che «evitare le discussioni è solo un segno della propria debolezza»”. Anche questo conferma il legame di Badaloni col partito di cui, lontano dal voler essere singola testimonianza ideale, condivideva la prospettiva generale ma a cui rifiutava di subordinare pensiero e criticità. Accanto ai politici un gran numero di colleghi, allievi e docenti dell’Università e della Scuola Normale di Pisa.

Ma a testimonianza dell’affetto di Livorno colpiva, alla cerimonia funebre, la presenza di cittadini uniti in un applauso di saluto, le serrande abbassate lungo il percorso e, la domenica successiva, il minuto di silenzio in suo onore allo stadio nella partita di calcio Livorno-Milan.

Livorno ha un ruolo importante nella vita e nella formazione di Badaloni. Lì anche la lezione di Arturo Massolo che insegnò al Liceo classico fino al 1943 e che, nelle conversazioni con il giovane, affrontava con chiarezza antifascista, insieme con i temi centrali della Storicità della metafisica che andava scrivendo, temi politici e sociali di drammatica attualità. C’era in Massolo il senso della storia come contingenza e la “consapevolezza dell’incombere di una inautenticità storicamente precisata” (Badaloni) a cui rimase sempre fedele. Per il più giovane, è il primo incontro col tema centrale dell’emergenza della finitezza della discorsività umana e di una storicità liberata dai vincoli della metodologia crociana e dal peso dello “spirito assolutamente creatore” di Gentile.

L’antifascismo di Badaloni non fu però solo una scelta culturale: “la mia scuola di antifascismo fu a Livorno, attraverso legami con personaggi che avevano rapporti col partito comunista e con l’antifascismo clandestino [...] partecipavo a riunioni dei miei amici iscritti al partito comunista e mi sentivo partecipe di un’aura cospiratoria” dichiara nella bella intervista Filosofia, marxismo, impegno politico raccolta da Vittoria Franco in più sedute nel maggio 1998 e pubblicata su “Iride” (26, 1999). E a Livorno si sviluppa la sua attività politica e culturale degli anni ’50 in una prospettiva internazionale ma anche nel “nido delle aquile” (l’ultimo piano della federazione del PCI di Corso Amedeo) a contatto con altri giovani discutendo di tutto: di cinema, di spettacolo, di storia del movimento operaio, di politica. La Livorno che gli apparteneva era la città nata come “porto franco”: città di immigrazione e di tolleranza (la costituzione del 1593 concedeva libertà di residenza anche agli ebrei), città di movimento, di incontri, di crocevia culturale e soprattutto proletaria, di ceti popolari legati alle attività del porto.

Significativamente durante il periodo in cui fu sindaco, accanto agli studi sugli autori del Rinascimento e su Vico, conduceva negli archivi toscani puntuali e pioneristiche indagini sulla storia di Livorno nell’Ottocento. Studiarne i movimenti molecolari economici e sociali, i rapporti dei ceti popolari, delle loro condizioni e delle loro rivolte con l’impegno di intellettuali democratici come Guerrazzi e di saint-simoniani come Carlo Bini, era un modo, da un lato, di ritrovare la genesi storica di fenomeni e situazioni che andava ad incontrare anche come amministratore, e, dall’altro, di evidenziarne il significato specificato all’interno della storia italiana ed europea. Le figure che emergono nella loro complessità e movimento sono ritratti, vivi nelle loro passioni, di Livornesi definiti dal Guerrazzi “calde, spensierate e generose nature”. Questi studi sono stati raccolti e sviluppati nel volume Democratici e socialisti nella Livorno dell’800 del 1966, in cui Badaloni presenta una Toscana ben diversa da quella tratteggiata ed idealizzata da Gentile nel suo Cino Capponi e la cultura italiana del secolo decimonono. I saggi sono dedicati alle agitazioni e lotte politiche a Livorno negli anni 1847-1849, ai guerrazziani e saint-simoniani e al pauperismo, al pensiero politico di Guerrazzi dal 1853 al 1873 e infine ad anarchici e socialisti livornesi e pisani (1873-1894). Questi temi saranno ripresi e continuati in Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926, del 1977 (in collaborazione con F. Pieroni Bortolotti). Il primo volume è dedicato “ai concittadini livornesi in segno di affettuoso riconoscimento del loro permanente impegno civile e politico”. Recentemente - con quel senso di gioco che spesso accompagnava in lui la serietà dei contenuti - aveva avuto modo di intervenire su “Il Tirreno” a proposito dello storico monumento a Ferdinando I, detto dei Quattro mori, giudicando le statue dei barbareschi incatenati ai piedi del Granduca (all’uscita del porto mediceo, in una piazza principale), in deciso contrasto con lo spirito democratico e accogliente della sua città.

Nel 1941 Badaloni si iscrisse alla Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Pisa, dove ha poi sempre insegnato a partire dall’anno 1957-58. A Pisa si è formato e soprattutto ha formato intere generazioni: nelle più diverse vie intraprese, in dirigenti politici, amministratori, studiosi, insegnanti, è unanime il riconoscimento di un incontro importante, decisivo nella loro vita. Luogo di riferimento essenziale e suo rifugio, il tavolo di lavoro, sempre carico di libri, della sala dei professori della Biblioteca universitaria. Badaloni è stato, in anni difficili (dal 1968 al 1979), un Preside autorevole anche se esercitava questo ruolo con sufficiente distanza e ironia. Basti il fatto da lui ricordato, nell’intervista a Vittoria Franco, di avere impedito che fosse cancellata, nell’aula dove teneva lezione, una vivace e sovversiva pittura murale frutto di una occupazione: “Però io mi divertivo a mantenere l’affresco e a fare lezione in quell’aula con quel tanto di ironia che è teorizzato da Rorty. Una componente ironica è necessaria per poter affrontare la dura resistenza delle cose”. Il preside “comunista” non ebbe mai compiacenza superficiale verso i movimenti: non indulgeva ma, prima di altri, ne comprese il senso di rinnovamento e di liberazione dell’individuo senza facili esorcismi e lenocinii. E ne promosse lo studio e l’approfondimento critico anche in convegni dell’Istituto Gramsci quali Il marxismo italiano degli anni sessanta e la formazione teorico-politica delle nuove generazioni (1971) e La crisi della società italiana e le nuove generazioni (1977).

Un altro vivo ricordo di quel periodo è quando - alla notizia del rapimento di Aldo Moro - la sua affollata lezione divenne, con l’accorrere di studenti e professori da altre aule, una partecipata assemblea ed un grande corteo.

A Pisa Badaloni si incontrò con la lezione di Guido Calogero e della sua Scuola dell’uomo (“un libro bellissimo”, sorta di introduzione all’impegno etico-politico e alla libertà), il cui insegnamento fu seguito solo per pochi mesi in quanto interrotto dall’arresto e dal confino. Il successore fu Cesare Luporini: con lui il rapporto di militanza e il confronto politico e teorico rimarranno un punto fermo in tutto il suo percorso. Con Luporini si laureò nel 1945 con la tesi Retorica e storicità in Vico: ma la prima bozza di tesi poi abbandonata, di carattere teoretico, a cui aveva lavorato, aveva al centro la retorica e la politica con un riferimento forte a Michelstaedter e discuteva Gabriel Marcel e Martin Heidegger (quest’ultimo presente in

quegli anni a Pisa nelle lezioni polemiche di Calogero e in quelle simpatetiche di Carlini, oltre che nell’esperienza tedesca dello stesso Luporini). Retorica significava copertura della violenza e lontananza dalla storicità: si imponeva alle coscienze critiche una ricerca teorica capace di dar ragione e “domare le spinte irrazionali”.

Badaloni inizia in quegli anni, accanto agli studi di storiografia filosofica, un’intensa riflessione sul significato della ricerca storica e della filosofia, a confronto con più posizioni (tra cui, oltre che quelle del neoidealismo, quelle di Calogero, Abbagnano, Bobbio, Preti, Dewey) che confluirà poi nel volume del 1962 Marxismo come storicismo. Vi sono, in Badaloni, il rifiuto delle diverse riduzioni soggettivistiche della ricerca storica e la critica di ogni partenogenesi delle idee, l’ostilità verso ogni semplificazione e dogmatismo, la lontananza da schemi prefissati e criteri valutativi preformati. Dal punto di vista metodologico le proposte dello storicismo di impronta gramsciana vengono intese come critica della tentazione di stabilire rapporti tra universalizzazione e realtà storiche che non siano persuasivamente documentabili: “la storia della filosofia è veramente storia fatta su documenti, su nessi reali accertabili e non idealizzazione fatta su analogie” scrive nel saggio Filosofia, storia, e storia della filosofia nel marxismo (1964). Ed è significativo che, in punti cruciali, il riferimento diretto sia a Garin (“lo sento come un maestro” dichiarerà nell’intervista a Vittoria Franco) ed anche il saggio sopracitato termina, richiamando “la necessità di mantenersi saldamente ancorati alla filologia”, con una significativa citazione da La filosofia come sapere storico: “quella filologia che non significa affatto stabilimento di testi, o raccolta di dati: significa fedeltà, e rispetto costante di ogni individuazione concreta, di ogni situazione reale entro il complesso dell’atto storiografico”. Negli ultimi anni a Badaloni è sembrato riduttivo il termine “storicismo”, da lui stesso usato, in quanto il suo storicismo era radicale storicità consapevole di sé, intesa come strumento per conoscere e mutare i condizionamenti materiali e creare spazi di libertà. Così scriveva nel suo articolo per Sebastiano Timpanaro del 2001 Amici che consentono e dissentono: “È infatti paradossale (anche se il paradosso è voluto e ha un valore provocatorio) definire storicismo una concezione che, come quella che io professavo allora e tuttora professo, presuppone una stratificazione di livelli della realtà, che è testimoniata dal nostro stesso corpo e dal suo organo principale, che è il cervello. Infatti, è non solo pretenzioso, ma anche pericolosamente riduttivo, puntare solo sulla componente che appare alla superficie e lasciare nell’ombra gli elementi fondanti. Persino la più avveduta azione storico-politica di oggi, che ha pure come fine, purtroppo ancora lontano, il governo democratico del pianeta e la conservazione del genere umano dai pericoli e dalle tragedie che esso stesso ha prodotto e tuttora produce, ha come suo presupposto, tuttavia sempre operante, rudimentali istinti di autodifesa, che la storia via via ha arricchito di bisogni e di impulsi, che trascendono tale struttura elementare”. È questo il senso di un’intensa ricerca che, allargandosi a Freud e a Nietzsche, ha tenuto conto sempre più del peso di condizionamenti materiali, delle forze dell’inconscio e che ha sentito l’esigenza - come afferma nell’intervista a Vittoria Franco - di “esplicitare le contraddizioni su piani diversi perché diversi sono i livelli della struttura temporale della nostra esistenza, fatta di condizionatezza naturale, di tradizioni, di passato, di necessità del presente ed anche di proiezioni”. Una ricerca che - con coraggiosa coerenza - non ha rinunciato fino all’ultimo a difendere la dialettica quale “possibilità di visualizzare l’insieme delle relazioni consce e inconsce, per rendere più forte la consapevolezza”. E tra i suoi rammarichi: “non capisco molto perché gran parte dei filosofi più giovani abbiano preferito un approccio semireligioso, perdendo anche il gusto dell’interpretazione storica che era la forma tradizionale di approccio rigoroso”.

Nicola Badaloni nel dicembre scorso ha licenziato per la stampa un nuovo volume (Laici credenti all’alba del moderno. La linea Herbert-Vico, Le Monnier, Firenze) a cui ha lavorato intensamente e con passione negli ultimi anni, in condizioni difficili, con accanto, quotidianamente, il prezioso aiuto della moglie Marcella. Il confronto con il “laico credente” Herbert di Cherbury - su cui già in tempi lontani aveva dato qualche spunto interpretativo - porta chiarimenti su aspetti centrali del pensiero filosofico di Vico quali la “filosofia della mente” e la “barbarie della riflessione”. L’affinità tra gli autori del De Veritate e della Scienza Nuova è nell’idea, impregnata di laicità, di provvidenza-natura: per Herbert quella forza che si esprime nell’uomo come istinto immediato conservativo e, quando sia mediato dalla ragione, come volontà di salvezza dell’intero genere umano. Variano le modalità in cui queste affinità si presentano nei rispettivi contesti, più specificamente dipendenti dalla natura e da aspirazioni metafisico-religiose in Herbert, più intensamente interne alla storia e al suo sviluppo sociale e giuridico in Vico. Il filosofo italiano ricava inoltre da Herbert, che fu storico valente, la prima suggestione per la definizione della conoscenza storica, trasformando criticamente il verosimile herbertiano in un certum, che diventa verum a opera della filologia. La sorte ha voluto che con quest’ultimo scritto Badaloni si collegasse alle sue prime ricerche e pubblicazioni (su “Società”, 1946) che avevano trovato poi sviluppo nell’Introduzione a G.B. Vico del 1961 (grande, minuzioso affresco della cultura napoletana in cui si innova radicalmente la lettura del filosofo) e poi nel volume della collana “I filosofi” di Laterza (1984). La filosofia di Vico perde l’astrattezza della costruzione di una mente eroica fuori del tempo e dello spazio: il filosofo, erede di una complessa e lunga tradizione, viene visto interagire con i suoi contemporanei con i quali ha un comune terreno di discussione. A Vico Badaloni conduce il suo lettore dopo un percorso (di una “introduzione” si tratta) che è anche la storia di tutti coloro che gli furono compagni. E Vico era stato scelto da lui fin dall’inizio in quanto “grande filosofo che poneva al centro l’importanza cognitiva della storia”.

Stupiscono la mole e i risultati della lunga e assidua operosità, in più campi, e la capacità di lavoro di Nicola Badaloni: quando ad esempio era, ad un tempo, sindaco, insegnante fuori sede, membro del comitato centrale, assistente all’Università e non rinunciava a lunghe ore di studio chiuso in biblioteche ed archivi.

È difficile indicare anche le linee più significative della sua ricerca senza sacrificarne alcune: allora ricordo il libro su Campanella del 1965 e quello su Antonio Conti. Un abate libero pensatore tra Newton e Voltaire del 1968, i saggi sul galileismo in Italia, la storia della cultura italiana tra illuminismo e romanticismo nel terzo volume della Storia d’Italia Einaudi, del 1973. Tornando più volte su Vico, Bruno, Campanella, come centri di significato e discussione di un mondo culturale e sociale minuziosamente e attentamente ricostruito, Badaloni ha disegnato una linea di sviluppo del pensiero moderno fino ad Hegel, Feuerbach e agli autori del marxismo: Marx, Engels, Labriola, Gramsci. A questi autori, oltre a numerosi saggi, ha dedicato monografie storiche e ricerche teoriche tra cui: Per il comunismo. Questioni di teoria (1972), Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica (1975), Dialettica del capitale del 1980 (“l’opera che mi ha appassionato di più è il libro su Marx in cui mettevo in discussione le forme di sottomissione reale e formale al capitale” - afferma nell’intervista a Vittoria Franco), Gramsci: la filosofia della prassi (1981), Forme della politica e teorie del cambiamento. Scritti e polemiche 1962-1981 (1982), Il problema dell’immanenza nella filosofia politica di Antonio Gramsci (1988).

In particolare Badaloni ha mostrato, in più lavori, la piena collocazione di Gramsci nel contesto occidentale. Ha sottolineato lo spirito di “scissione” attraverso l’influenza di Sorel nel periodo giovanile e, successivamente, la “ricomposizione”, politica e razionale. La trasformazione, che Gramsci ha in mente, si appoggia per Badaloni principalmente sull’antideterminismo che anima la polemica contro Bucharin, simbolo di un approccio alla storia grossolanamente materialistico e antiumanistico, e la grande reinterpretazione della storia ottocentesca e novecentesca attraverso il tema dell’egemonia e le categorie di rivoluzione passiva e attiva.

Credo che un’indagine, una valutazione, una definizione storica del ruolo avuto da Badaloni nella cultura e nella vita politica della seconda metà del Novecento, debbano essere opera di più specialisti. Io che ho iniziato un cammino mai interrotto con “Marco” Badaloni nel lontano autunno del 1964, non ho affrontato da specialista nessuna delle molte tematiche da lui studiate eppure ho sempre sentito e sento Badaloni come un mio esemplare maestro. A questo si aggiunge la gratitudine per il forte e gentile affetto che ha sempre avuto per me.

Ho messo insieme qualche impressione e ricordo spinto dal dolore per l’interruzione brusca e assurda di abitudini e di una familiarità che si era consolidata col tempo diventando una grande amicizia. Sento forte la mancanza improvvisa di un punto di riferimento sicuro, del suo affetto, della sua ironia. Il vuoto lasciato da una persona con cui era bello parlare anche per la capacità di partire da un fatto concreto, vicino, quotidiano, per riproporlo in una luce nuova capace di mettere in movimento la riflessione più generale.

E mi piace ricordare la forza della sua visione positiva, la viva passionalità lontana da ogni indulgenza verso la crisi anche nei momenti più duri, e da ultimo, il senso pieno di una felicità fisica come quando si concedeva lunghe nuotate nel suo mare, finché gli è stato possibile.

Credo che la sua prima lezione per me sia in quel senso della storia che, proprio perché lontano da ogni prevaricazione, significa conoscenza già capace di andare verso il cambiamento. Un’esperienza che si contrappone, oltre che alla linearità e sicurezza di un processo cumulativo, anche al voluttuoso dilettantismo proprio “dell’ozioso raffinato nel giardino del sapere” che ha bisogno della storia per riempire il suo vuoto interiore.

 

Giuliano Campioni

 

Da: Comune notizie: rivista del Comune di Livorno, n. 52-53 (2005), pp. 17-25.

Hai bisogno di aiuto? Chiedi in biblioteca